Trino

AutoriCerino Badone, Giovanni
Anno Compilazione2013
Anno RevisioneVersione Provvisoria
Provincia
Vercelli
Area storica
Monferrato
Abitanti
7.490 [dato aggiornato ISTAT al 31 luglio 2011]
Estensione
7060 ettari [ISTAT].
Confini
Bianzè (VC), Camino (AL), Costanzana (VC), Fontanetto Po (VC), Livorno Ferraris (VC), Morano sul Po (AL), Palazzolo Vercellese (VC), Ronsecco (VC), Tricerro (VC).
Frazioni
Robella [ISTAT 2001]. Leri Cavour e Lucedio sono centri minori.
Toponimo storico
Trino è località ricordata nell’elenco delle pievi del X secolo, ma il riferimento è alla Chiesa di San Michele, centro di un territorio che fu probabilmente densamente popolato in antico. “Trino di sotto”, o “villa”, viene citata per la prima volta nel 1014 [Panero 1985, p. 23] in due diplomi di Enrico II, nei quali è fatto cenno alla donazione di varie terre da parte dei marchesi di Monferrato, “in Tridino” e nella corte Auriola, all’abbazia di Fruttuaria e alla confisca di beni a due “domini, Sigefredus et Ingelbertus de Tridino”, fautori del deposto re Arduino, per farne dono al vescovo di Vercelli Leone [Avonto 1980, p. 233].
Diocesi
Vercelli. Già parte della diocesi vercellese sin dal periodo paleocristiano, probabilmente a partire dal IV secolo [Rerum Patriae, p. 15, Panero 1979, p. 19, Borla 1982, 14-16]; resti archeologici di una chiesa di San Massimo confermano questa ipotesi [Borla 1982, p. 24]. La prima attestazione documentaria è del X secolo [MGH, D, I, pp. 462 sgg]. Il 18 aprile 1474 Casale veniva eretta sede vescovile da papa Sisto IV con la bolla Pro excellenti [Cappelletti 1858, pp. 574-577]. Trino veniva assegnata a questa nuova diocesi cui appartenne sino al 1805, quando fu riaggregata a Vercelli.
Pieve
Sede di Pieve già dal IV secolo d.C., l’edificio titolato è la Chiesa parrocchiale di San Bartolomeo. Si trattano qui di seguito: a. Organizzazione; b. Distretto pievano; c. Edificio storico e rapporto con la comunità; d. Rendite; e. Rapporti con le altre presenze religiose.
      a. Organizzazione. La Pieve di San Bartolomeo risulta gestita sin dal XIII secolo da un collegio di canonici la cui presenza è da collegarsi alla precedente sede parrocchiale di San Michele e stabilita già nel IV secolo [APT, Vol. 70, Informationes in forma juridica]. Il 14 febbraio 1215 oltre al parroco erano presente altri quattro canonici dedicati a San Grato, San Martino, San Onorato e San Defendente [Rerum Patriae, p. 74]. Al momento del trasferimento della parrocchia in città fu voluto dalla famiglia Porcelli un quanto canonico dedicato a San Michele. Nel corso del XVII secolo furono retti altri cinque canonicati: del Crocefisso (1657), di San Sebastiano (1657), di San Domenico (1665), di Sant’Andrea (1687), di San Bartolomeo (1706). Nel 1706 il ruolo dei canonicati raggiunse il numero di 10 ai quali andava aggiunta la prepositura, il titolare della quale era anche il capo della Collegiata. Le famiglie da cui questi cinque nuovi canonicati più recenti avevano avuto origini erano rispettivamente: Maggio, Cagna, Pelleria, Villata, Bondonis [APT, Notizie, 1723, f.37]. Le famiglie fondatrici avevano anche la prerogativa del jus nominadi e, quando alcune di esse si estinsero, i rispettivi canonicati divennero di libera collazione. Nel 1748 i canonicati di libera collazione erano già sette. Restavano legati alle famiglie fondatrici soltanto i canonicati di San Domenico, Sant’Andrea e del Crocefisso [APT, Relazione della visita pastorale del 1748]. Le visite pastorali avevano raccolto la notizia che i canonici della Collegiata di Trino, almeno inizialmente “convivevano con l’istituto monastico”, ma spartivano la preghiera e la contemplazione con l’attività pastorale, e godevano solo di beni comuni [APT, Notizie da darsi dal sig. prevosto Gio. Gerolamo Risico a Mons. Pietro Secondo Radicati de Conti di Coconato, e Cella Vescovo e assistente al Soglio Pontificio di Casale e conte nella visita Pastoriale, 1723, f. 31]. Con l’aumento del numero dei canonici e la presenza sempre più “ingombrante” delle famiglie trinesi i beni comuni della collegiata iniziarono a pretendere uno smembramento e conseguente suddivisione in prebende personali dei beni comuni, suddivisione sancita in maniera definitiva già nel 1215 con la decisione di trasferire la pieve da San Michele a San Bartolomeo. Proprio allora furono assegnate “ad ognuno la sua prebenda, cioè al prep.o centoquindici giornate ed agli altri quaranta circa” [APT, Vol. 70, Informationes in forma juridica, f.6r]. Fu la fine della comunanza dei beni e della vita “monastica” in senso stretto, inoltre la cura delle anime fu devoluta al solo parroco con l’esclusione dei canonici i quali iniziarono a godere dei redditi delle prebende senza assolvere l’onore della residenza corale. Consuetudine condannata dal vescovo Scipione Estense nel 1567 e Ambrogio Aldegatti nel 1568 [APT, Vol. 68, f. 141r.]. Parole rimaste al vento dal momento che nel 1723 il vescovo Radicati di Cocconato ancora imponeva ai canonici “a risiedere personalmente e di officiare anche personalmente in coro a tutte le feste dell’anno principiando dai primi Vespri [APT, Vol. 68, f. 148r.]. Quattro anni dopo due canonici ancora non rispettavano gli ordini vescovili e accollavano i loro obblighi ad un sacerdote sostituto.
     b. Distretto pievano. Nel 1730 il territorio di Trino contava oltre alla chiesa parrocchiale di San Bartolomeo altre 15 chiese inserite nel tessuto urbano cittadino, 5 chiese campestri – alle quali si devono aggiungere quattro delle quale oratori inclusi in strutture agricole - , cinque confraternite, undici compagnie laicali, tre conventi maschili (di San Francesco, San Domenico, dei Padri Carmelitani), due femminili (delle Clarisse e delle Domenicane). In tutto si contavano 30 parroci, 20 frati francescani, 18 domenicani e 8 carmelitani [APT, Notizie da darsi dal Prevosto, 1723, f. 42]. Le chiese erano le seguenti: San Bartolomeo, Santi Apostoli, San Lorenzo, San Pietro Martire, San Giovanni Battista, Misericordia, San Pietro da Pudenico, Beata Vergine sopra le Mura, Sant’Antonio Abate, Santa Caterina, Santa Maria delle Grazie, San Francesco, Santissima Annunziata, Santissima Trinità, Chiesa del Beato Oclerio. Le chiese campestri erano invece le seguenti: alla Robella la chiesa della Beata Vergine del Loreto, alla Salera la chiesa di Santa Maria Maddalena, alla cascina Guazza la chiesa dell’Assunzione di Maria Vergine, alla Faletta la Beata Vergine
      c. Edificio storico e rapporto con la comunità. Riguardo alla chiesa di San Bartolomeo si hanno notizie a partire dal 1220 [ASCV, Codice delle Investiture, Vol. I, f.67r] anno in cui fu eretta parrocchiale sostituendo in questa funzione la chiesa di S. Michele in Insula [vedi voce “altre presenze ecclesiastiche” e “luoghi scomparsi”] abbandonata questa nel 1215. La struttura originaria, edificata piuttosto velocemente nel tessuto urbano di Trino in architettura romanica e composta da quattro navate, con sedici altari. La chiesa di San Bartolomeo aveva stentato ad affermarsi come luogo religioso di riferimento per le comunità campestri e per le altre presenze religiose, con le quali era spesso in contrasto [vedi altre presenze religiose]. L’interno della struttura appare caratterizzato da altari spogli, soffocati da sepolture in fossa che avevano ormai totalmente sconvolto il pavimento e da monumenti funebri che non permettono una corretta celebrazione della messa [ACVC, Visita Apostolica Gerolamo Ragazzoni, 1577, ff. 109-112, ff. 139-139r; Visita Apostolica Carlo Montiglio, 1584, ff. 249r-260; Visita Apostolica Ambrogio Aldegatti, 1568, f.2]. La stessa presenza del vescovo di Casale Scipione d’Este, in visita pastorale il 25 maggio 1567, attira solamente il “populo aggregato” e solo due canonici cittadini, mentre il resto degli altri sacerdoti e tutta la popolazione delle campagne rimane indifferente [ACVC, Visita Pastorale Scipione d’Este, 1567, ff. 89-90]. La chiesa fu gravemente danneggiata dai tiri di artiglieria da parte dell’esercito sabaudo di Carlo Emanuele I durante l’assedio del 1628. Le palle di cannone avevano come bersaglio l’alto campanile contiguo all’edificio religioso che serviva da osservatorio. Le palle di cannone colpirono la torre che “atterrando nella sua caduta rovinò intieramente la chiesa” [ACVC, Visita Pastorale Sc. Agnelli, 1648, f. 50; Borla 1977, p. 69]. In realtà i danni erano limitati ad una sola sezione dell’edificio, in gran parte ancora in piedi ed in grado di essere facilmente ripristinato. La comunità decise tuttavia di ricostruire totalmente le chiesa in forme barocche: la scelta di edificare ex-novo non venne presa dalle autorità religiose ma dal consiglio comunale [Borla 1980, p. 66] il 17 aprile 1634 [ASCT, Ordinati della comunità. Mazzo 10, 1634]. Tuttavia la disastrosa situazione economica di Trino, sede di importanti guarnigioni e continuamente sottoposta ad onerosi prelievi fiscali, fece sì che il cantiere appena iniziato si fermasse per mancanza di fondi. La decisione del consiglio comunale di stanziare “livre mille d’argento” fu soltanto nominale e per recuperare fondi sufficienti ad avviare concretamente il cantiere fu necessario devolvere a questa impresa i “fitti de beni essecutati à Particolari debitori”, l’incasso dei crediti “che la Communità tiene con quansivoglia persona che possede sopra questo finaggio e territorio beni che sono al registro d’altri per quali sono scorsi anni che non si pagano taglie” [ASCT, Ordinati della comunità. Mazzo 10, 1634]: si trattava di incassare a favore del fondo del cantiere della parrocchiale i fitti sui terreni incamerati dal comune e poi ceduti a terzi e recuperare crediti per imposte a carico di quelle persone che avevano in precedenza occupato e coltivato terreni abbandonati dai proprietari, morti di peste o sfollati a causa degli eventi bellici. Se queste misure non fossero state sufficienti e non fosse stato possibile raggiungere la cifra necessaria ad avviare i lavori di lire 1.000, “i Raggionieri in comapgnai de ss.ri Sindaci debbono in ogni modo procurar la vendita di qualche stabile delli beni essecutati con il prezzo del quale, ò quali, si possi compire detta somma”. Si tratta anche in questo caso di vendere edifici incamerati dal comune in compenso di tasse non pagate. Le mille lire raccolte furono sufficienti infine ad avviare i lavori,ma ben presto ci si accorse che non sarebbero bastate a concludere il cantiere in tempo ragionevoli. “con il fondo fatto hora sopra lla redificatione della fabrica non si può qiella ridurre à perfetione”. Pertanto fu necessario richiedere l’aiuto della comunità in termini di soldi, materiali, mezzi e mano d’opera: “atteso che il Comune resta con qualche debolezza in modo che sia necessario l’aiutto de Particolari, hanno perciò ordinato che debbi fare una radunanza della maggior parte dei capi di Casa, alla presenza dell’Ill.mo S.r Conte sodetto (il contente Francesco Caretti, governatore della piazzaforte) che gliene conceda l’honore, et da essi procurar l’aiutto, che caduno puotrà dare, et promettere, ò de denari, ò condotte, ò altro conforme caduno l’sentirà, acioche in tutti i modi si puossi seguire la detta fabrica” [ASCT, Ordinati della comunità. Mazzo 10, 1634]. L’edificio, se non completato in tutte le sue parte, era stato sicuramente completato nel 1636 ed aperto al culto. Nel giugno di quell’anno soldati della guarnigione asportarono dalla chiesa tutti i banchi per riutilizzarli come legna da ardere [ASCT, Ordinati della comunità. Mazzo 10, 1636]. La visita pastorale del 1648 confermava che la struttura era perfettamente completata ed in funzione [ACVC, Visita Pastorale Sc. Agnelli, 1648, f. 50]. Gli altari principali erano stati ridotti a otto, compreso quello maggiore, ed erano dedicati a: Santa Brigida, Sant’Orsola, San Rocco, Sant’Agata, Santa Barbara, San Bernardo, San Sebastiano [ACVC, Visita Pastorale Pietro Secondo Radicati, Risposte, 1723, f. 688]. Esistevano anche otto cappelle laterali, dove officiavano i canonici: la cappella del Crocefisso era la prima a sinistra. Venivano nell’ordine gli altari di San Carlo, San Michele e San Rocco e della Concezione. Sulla destra, all’entrata, si trovava la cappella di San Domenico, dei Santi Andrea e Tommaso, della Beata Vergine della Purificazione ed infine di San Giuseppe. Nel 1663 furono segnalate tracce di cedimento [Borla 1977, p. 195], ma solo nel 1730 si ebbero dei cedimenti parziali nella zona del coro, ripristinato tra il 1732 ed il 1733 [ACVC, Visita Pastorale della Chiesa, 1748, risposte, f. 599]. Un temporale scoperchiò il tetto nel 1783: i danni sofferti dalla chiesa di San Bartolomeo a causa delle infiltrazioni dell’acqua causarono gravi danni al punto che nel 1838 l’edificio venne chiuso al pubblico. La parrocchia fu temporaneamente trasferita nella chiesa di Santa Caterina [vedi altre presenze ecclesiastiche] interventi di restauro che si prolungarono dal 1841 al 1861. Il 14 febbraio 1861 la chiesa di San Bartolomeo veniva riaperta al pubblico e riconsacrata. Annessa alla parrocchiale e parte integrante della stessa è la Cappella del Beato Oglerio, oggi utilizzata come Auditorium. La facciata è compresa nell’ordine inferiore dell’edificio che ospita la Confraternita del Santissimo Sacramento. L’interno, quattro campate a pianta rettangolare con copertura di volte a crociera a tutto sesto, rivela che questa altro non è che la navata laterale sinistra, la quarta per l’esattezza, dell’edificio duecentesco romanico. Dopo il rifacimento di San Bartolomeo nel 1636 questo luogo era ricordato come “horrida deformis et fere locus sordium” anche se “die Iovis sancti ob sepulcrum” si svolgevano ugualmente alcune funzioni religiose. I restauri di questo ambiente furono intrapresi nel 1724, la cappella fu benedetta il 31 ottobre 1724 e dedicata a San Oglerio, mentra il cantiere venne definitivamente concluso l’anno seguente [APT, Informationes 1728, f. 19]. Qui i canonici avevano la loro sepoltura e nel 1859, non essendo ancora ultimata la chiesa parrocchiale, durante i giorni feriali si svolgevano le funzioni collegiali, mentre quelle festive nella chiesa di San Domenico [APT, Convocati Capitolari 1821-1864: Libro dei Morti 1704-1800].
    d. Proprietà e rendite. Nel 1710 venne effettuata una verifica del catasto sui registri aggiornati agli anni 1688-1689. La parrocchia contava 110 giornate di terreno agricolo, mentre la Canonica poteva vantare le 43 giornate del canonicato di San Michele, le 54 del canonicato di San Onorato, le 60 del canonicato di San Defendente e le 83 del chiericato di San Desiderio [ASCT, Nuovo Catasto 1688-1689, Copia del Registro Universale, Mazzo 367; Ordinati Mazzo 14, Memoriale, 22 ottobre 1710]. A partire dal 1687 si ebbero le prime grandi offerte in denaro alla Collegiata e vi fu “chi principiò a lasciare doppie 400 per l’officiatura dei primi Vespri della Dom.a quinquagesima sino a compieta della Domenica in Albis” [APT, Vol. 70, Notizie da darsi al Capitolo 1766, f.4]. Questo lascito fu il primo da altri che seguirono, tutti destinati all’area delle officiature corali che consentirono di costituire una massa capitolare il cui reddito era diviso tra i canonici presenti. Nel 1766 questi lasciti avevano coperto 270 giorni di officiature annuali con reddito assicurato. Nel periodo non coperto dalle rendite e dagli obblighi dei legati si officiava nei soli giorni festivi [APT, Vol. 70, Notizie da darsi dal Capitolo 1766, f.5].
 
      e. Rapporti con le altre presenze religiose. L’esistenza in Trino di cinque confraternite [vedi voce “altre presenze ecclesiastiche”] rivela una pluralità di gruppi umani e clientele che si rivelò un fattore di tensione tra la Pieve e la Collegiata e le altre presenze religiose cittadine. Le confraternite puntavano a sottrarre offerte e lasciti alla chiesa parrocchiale elargendo benedizioni, distribuendo candele e rami di ulivo senza permesso o celebrando la messa contemporaneamente alla Collegiata, sottraendole parte dell’uditorio. Concorrenza che si esprime nella promozione di proprie feste, processioni e, non da ultimo, nella definizione di un proprio ambiente sacro sia fisico che culturale. [ACVC, Visita Pastorale Ignazio della Chiesa, 1748, f.573]. Le confraternite riescono spesso a mettere abilmente in posizione di inferiorità la Collegiata: la Compagnia del Santissimo Sacramento [vedi voce “altre presenze ecclesiastiche”] fondata nel 1451, riuscì nel corso del XVII secolo a ritagliarsi un sufficiente spazio economico e politico da porre in subordine la parrocchia, la collegiata e le altre confraternite come ente finanziario, assistenziale e sanitario. In questa situazione di forza costrinse la parrocchia di San Bartolomeo ad accettare come prassi abituale la sua supremazia sulle altre confraternite religiose e impone alla Collegiata di essere l’unica istituzione della comunità trinese a poter garantire le forniture di olio per la lampada dell’altare maggiore e della cera per il normale svolgimento della messa. Tale supremazia fu infine sancita con la “precedenza” che questa Confraternita aveva sulle altre nel corso della processione del Corpus Domini [ASCT; Mazzo 13, Convocati 1698, ff.109r.-111r; Mazzo 14, Convocati 1710, ff.9-16r.]. Collegiata che cercò, nella seconda metà del XVII secolo, di riguadagnare spazi di manovra nella gestione delle elemosine e nella catalizzazione del culto, investendo nella canonizzazione di Tullio del Carretto vescovo di Casale tra il 1594 e il 1614. Il processo di canonizzazione inizia il 29 maggio 1675 intorno ad un personaggio ormai ritenuto santo dalla comunità trinese, al quale sono attribuiti miracoli, il suo sepolcro si copre di tavolette votive, croci, statuette di cera e argento. Il fallimento della canonizzazione, che mirava piuttosto esplicitamente ad estromettere la Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli dalla gestione ospedaliera di Trino, sancisce la posizione di subordine della Collegiata rispetto a questa. Infine la presenza di una comunità ebraica non mancava di suscitare malumori tra i religiosi i quali sottolineavano che in occasioni di processioni e feste domenicali “vi è frequenza alle bettole, à giuochi e di più che venditori, i mercanti e massime li ebrei ostinatamente vanno a fare i luoro negozij con tenere botteghe aperte” [ACVC, Visita Pastorale Ignazio della Chiesa, 1748, f. 520r].
Altre Presenze Ecclesiastiche
Nel 1730 a Trino si contavano, entro l’antico percorso delle mura, oltre alla chiesa parrocchiale di San Bartolomeo ben 15 chiese cittadine: Santi Apostoli, San Lorenzo, San Pietro Martire, San Giovanni Battista, Misericordia, San Pietro da Pudenico, Beata Vergine sopra le Mura, Sant’Antonio Abate, Santa Caterina, Sant Maria delle Grazie, San Francesco, Santissima Annunziata, Santissima Trinità, Chiesa del Beato Oclerio. Le chiese campestri erano: Sant’Anna, San Defendente, San Grato, San Michele. Le chiese annesse alle cascine erano intitolate come segue: quella della Robella alla Beata Vergine di Loreto, quella della Salera a Santa Maria Maddalena, quella della cascina Guazza all’Assunzione di Maria Vergine, quella della cascina Faletta alla Beata Vergine. Quest’ultima, sebbene nel territorio di Trino, nel 1723 era ancora assegnata alla cura del Torrione [APT, Vol. 70; “Statuta Collegiata Tridini”, f.10]. Nel 1802, al momento della soppressione degli ordini, si contavano 80 suore e 47 frati [Crosio-Ferrarotti 1992, p. 16]. Di seguito si dà l'elenco dei principali enti ecclesiastici del territorio comunale articolato nelle seguenti categorie:
1. Chiese. Le chiese sono state suddivise in chiese cittadine  –  ossia interne al tessuto urbano di Trino – chiese campestri, chiese scomparse, luoghi di culto minori.
2. Confraternite (in ordine alfabetico).
3. Abbazie, monasteri e conventi (in ordine alfabetico).
4. Ospedali (in ordine alfabetico).
5. Altre religioni
6. Proprietà e rendite.
 
1. Chiese cittadine di Trino.
Chiesa della Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli (1451, costruzione attuale del XVIII-XIX secolo)
La chiesa è posta al primo piano dell’edifico adiacente la Parrocchia di San Bartolomeo che comprende al piano terra la Cappella del Beato Oglerio, cioè la quarta navata della vecchia chiesa romanica [vedi voce “Pieve”]. La facciata dello stabile è divisa in due ordini: in quello inferiore si aprono due porte delle quali quella di sinistra immette allo scalone di accesso alla Chiesa della Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli e al Monte dei Pegni, quella di sinistra si apre sulla cappella del Beato Oglerio. Il canonico Irico scriveva che la Confraternita era stata fondata 1451 [Inventario Trinese, p. 165] ed immediatamente erano iniziati i lavori di costruzione della cappella “incominciata nel mese di maggio 1451 [ACVC, Visita Pastorale G. Caravadossi, 1730, f630r].
Chiesa di San Giovanni Battista, o del Gonfalone, o dei Disciplinati di Santa Caterina (XIII secolo, ricostruita nel 1743)
La chiesa era utilizzata dalla Confraternita del Gonfalone già dal XIII secolo [Itinerario Trinese, p. 182]. Costruita a ridosso delle mura cittadine, subì gravi danni a causa delle esplosioni delle mine allestite per la demolizioni delle fortificazioni nel 1672. Nel 1743 la chiesa fu completamente ricostruita [APT, Memorie della chiesa parrocchiale e della collegiata, Vol. 65bis, 1743]. Singolarmente per quel che riguarda la costruzione precedente anche le visite pastorali non sembrano aver lasciato documentazione, al punto che nel 1766 si constatava che “non si ritrova alcuna memoria stante il saccheggio degli spagnoli nell’anno 1639, quali atterrarono la porta” [ACVC, Visita Pastorale G.L. Avogadro, 1766, f.648].
Chiesa di San Lorenzo, o della Confraternita degli Angeli (XV secolo, ricostruita tra il 1738-1748)
Stando alla visita pastorale del 1568 [ACVC, Visita Pastorale Ambrogio Aldegatti, 1568, f.11r] la chiesa, sede della Confraternita degli Angeli dal 1492, era un piccolo edificio, poco più grande di un oratorio. Persino gli elementi caratterizzanti quali il campanile risultavano pericolanti “senza fondamenta e tutto tremolante al suolo d’una benchè piccola campana” [AOT, Carte vecchie in parte illeggibili, Mazzo non segnato]. I primi interventi di restauro furono del 1684. La Compagnia promosse nel febbraio del 1737 la ricostruzione totale dell’edificio incaricando il “tesoriere della med.a pro tempore a procurare ogni risparmio possibile nel fare spese ordinarie, affine coll’avanzo dei redditi di cumulare qualche somma per impiegarla indi nella rinnovazione di d.ta chiesa” [AOT, Carte vecchie in parte illeggibili, Mazzo non segnato]. Il cantiere ebbe inizio nel 1738 ma solo nel 1748 fu possibile portare a compimento la navata principale, causa difficoltà nel reperimento dei fondi necessari.
Chiesa di San Pietro Martire, o della Confraternita di Santa Croce (1543)
Nel 1543 la Confraternita di Santa Croce acquisì dai Domenicani un’area del loro cortile per costruirvi un oratorio [Itinerario Trinese, p. 187]. Oltre un secolo dopo i priori chiesero di poter vendere una casa di loro proprietà per costruire una nuova chiesa, quella attuale, “in siti proprio di detta confraternita” [ACVC, Visita Pastorale L. Ardizzone, 1698, f.328]. La visita pastorale del 1723, a sorpresa, informa come avvenuto il passaggio di proprietà dalla Confraternita all’Ordine dei Domenicani [ACVC, Visita Pastorale Pietro Secondo Radicati, 1723, f.697-698].
Chiesa della Confraternita dell’Orazione e Morte, o della Misericordia o di Ognissanti (1607)
Nel 1583 la Confraternita dell’Orazione e della Morte espresse il desiderio di “volr fabrichare la nuova Chiesa et oratorio a laude del Sig. Iddio nella casa di M. G. Bernardino Risignolo nella contrada del castello vecchio per non esserli Chiesa in quelle bande” [Itinerario Trinese, p. 36]. L’acquisizione delle aree per il cantiere e la raccolta della somma necessaria impegnò la confraternita sino al 1607, quando fu possibile avviare i lavori [ACVC, Visita Pastorale Pietro Gerolamo Cavadossi 1730, f.645]. In continuo contrasto con la Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli, la Confraternita dell’Orazione e della Morte nel corso del XVIII secolo, in particolare tra gli anni 1745-1769, continuò ad alienare beni immobili per ottenere sempre nuovi fondi necessari al completamento e all’abbellimento della chiesa [Itinerario Trinese, p. 190].
Chiesa di Santa Maria delle Neve o dell’Addolorata (1658)
Fu costruita su decisione del convocato della Confraternita delle Umiliate il 18 settembre 1768 in sostituzione di una chiesa precedente [Itinerario Trinese, p. 194]. Il cantiere venne terminato nel 1779 e il 25 luglio l’edificio fu inaugurato.
Chiesa di Santa Maria in Castro (X secolo, struttura attuale metà XVII secolo)
La fondazione della chiesa di Santa Maria sembra risalire al X secolo. Il canonico Irico riferiva di “aver letto” in un documento risalente all’epoca del marchese Bonifacio che questi, nel 1070, aveva restaurato la chiesa “rovinata per la malvagità dei tempi” [Rerum Patriae, p. 19]. Dubbi permangono sulla costruzione dell’attuale chiesa: la documentazione dell’archivio parrocchiale di Trino attesta comunque la presenza di strutture altomedievali in elevato, con una impostazione su tre navate, almeno alla seconda metà del XVII secolo [APT, Vol. 65bis, 1787, f.6]. La soppressione napoleonica delle corporazioni religiose comportò per Santa Maria l’allontanamento dei frati minori, stabiliti nel vicino convento [dei Minori Osservanti di San Francesco, vedi voce “altre presenze religiose: conventi] che in quel momento la officiavano. Nel 1818 fu dato un parere favorevole per un loro ritorno, ma sino al 1838 la chieda non era stata riconsegnata ai minori ma rimaneva a disposizione del vescovo di Vercelli [Sciolla 1977, p. 31].
Chiesa di Santa Caterina (XV secolo)
Il primo documento ad essa relativo è datato al 4 marzo 1403, nel quale la “Honoranda Domina Antonia Doreria” cedeva a favore dei frati predicatori terre e fondi necessari alla costruzione di una chiesa con campanile, campana e annesso cimitero [Rerum Patriae, pp. 142-154]. Un secolo più tardi, il 27 giugno 1452, il nuovo tempio veniva consacrato a Santa Caterina d’Alessandria. Nel contempo venne registrata la consacrazione del chiostro dei morti e di quello dei frati [Borla 1979, p. 42. Vedi anche voce sull’annesso convento “altre presenze religiose: conventi”]. L’edificio continuò a subire ampliamenti e attenzioni da parte dell’Ordine dei Domenicani sino alla cessione di Trino ai Savoia, quando parte degli arredi, soprattutto i più preziosi, furono trasferiti nella chiesa di San Domenico a Casale [Rerum Patriae, p. 146]. Nel XVIII secolo i domenicani richiesero a Carlo Emanuele III la possibilità di ampliare la chieda, supplica che venne accordata: i lavori furono completati nel 1765 [Sciolla 1977, p. 24]. Con la soppressione napoleonica delle congregazioni religiose la chiese divenne un magazzino comunale e, dopo alcuni passaggi di proprietà e di destinazione, fu riconsegnata ai domenicani nel 1829. La nuova soppressione degli ordini religiosi, registrata nel 1855, colpì Santa Caterina nel 1863. I domenicani rientrarono in possesso della chiesa nel 1908.
 
Chiese campestri
Chiesa di San Michele in Insula (IV secolo d.C., strutture attuali del XI secolo)
Si tratta di una chiesa molto antica, primitiva sede della collegiata, inserita all’interno di un abitato fortificato oggi perduto del quale è perfettamente riconoscibile lo sviluppo della cinta fortificata a pianta circolare [vedi voce insediamenti scomparsi]. Le sue origini non sono certe: il canonico Gian Andrea Irico riteneva tale edificio, già ai suoi tempi completamente isolato nella campagna, di origini paleocristiane fondata dal vescovo Eusebio di Vercelli nel IV secolo d.C. Altre ipotesi, sempre avanzate da Irico, vedono una fondazione del VII secolo ad opera del vescovo Emiliano di Vercelli al quale si deve la formazione della prima collegiata [Itinerario Trinese, p. 241]. Le indagini archeologiche condotte all’interno e all’esterno della chiesa a tre riprese tra il 1965, 1974 e 1984-1988 hanno che l’origine del sito è di epoca romana e tardo antica (I-VI secolo d.C.) allineati lungo l’asse viario Ticinum-Augusta Taurinorum, con la costruzione di un edificio molto ampio dotato di un portico frontale. Questa fase fu sigillata da uno strato di abbandono e da distruzioni causate da fenomeni alluvionali, come testimoniato dalla presenza di uno strato argilloso di deposito fluviale. Successive frequentazioni in epoca longobarda e carolingia (VII-VIII secolo) sono attestate dal toponimo (San Michele) e dall’analisi con termoluminescenza dei laterizi. In questa fase la chiesa era costituita da un sacello di ridotte dimensioni, una cappella, con base in laterizio e l’alzato ligneo. Nel IX-X secolo fu edificato un insediamento di capanne e una chiesa con area cimiteriale in muratura con sepolture interne ed esterne. Un evento di natura traumatica e violenta (incendio, saccheggio o combattimento) portarono ad una distruzione dell’area, alla quale seguì una fase di ripresa tra il X e l’XI secolo nella quale in borgo fortificato conobbe un nuovo sviluppo e la chiesa venne ricostruita [Sommo 2012, pp. 50-51; Arslan 1977, pp. 153-156]. Le dimensioni stesse dell’edificio erano assai più vaste: gli scavi hanno dimostrato che la lunghezza della navata era doppia a quella attuale, accorciata in due tempi [Sciolla 1977, p. 35]. Le murature attuale sono del XI secolo, con modifiche del XII/XIII secolo. Le prime notizie certe sono del XII secolo. La chiesa, allora plebana, viene menzionata in una bolla di Urbano III del 1186 [Verzone 1934, p. 28; Sciolla 1977, p. 34]. Nuovamente San Michele viene menzionata in un contratto del 12 febbraio 1215 nel quale le monache di Rocca delle Donne concedevano ai canonici di San Michele di celebrare nel loro monastero di Santa Maria in Castro le funzioni parrocchiali di San Michele, chiesa ormai posta al di fuori delle mura del nuovo centro di Trino [Rerum Patriae, pp. 74-75]. A quel punto la struttura, non più sottoposta a lavori di ordinaria manutenzione, iniziò a decadere al punte che nel XVI secolo risultava ridotta a rudere. Dopo tre secoli di abbandono nel 1504 San Michele fu sottoposta a restauri [Rerum Patriae, p. 242]. Saccheggiata nel 1745 dalla truppe franco-spagnole [Sincero 1897, p. 13], fu sottoposta ad ulteriori restauri agli inizi del XIX secolo e nel 1846, quando venne rifatta la facciata [Sciolla 1977, p. 34]
Chiesa della Madonna del Buonconsiglio, già di San Defendente Martire
La chiesa della Madonna del Buonconsiglio, anticamente dedicata a San defendente, è posta al di fuori dell’abitato di Trino verso sud nelle vicinanze di quella che era la “strada reale che tende da questa città a quella di Asti”, oggi la statale N° 455 che porta a Pontestura  [ACVC, Visita Pastorale G.L. Avogadro, 1766, f.664]. La chiesa originale era stata destinata a ricovero delle truppe nel corso della Guerra di Successione Austriaca tra il 1745 ed il 1748 [ACVC, Visista Pastorale G.L. Avogadro, 1766, f.664]. Al termine del conflitto l’edificio risultava completamente fatiscente: fu deciso pertanto di demolire il rudere e di ricostruire “in poca distanza dalla suddetta” verso la strada la nuova chiesa. Le foto aeree consentono di individuare l’antico edificio spostato poco più a ovest rispetto l’attuale struttura. Il nuovo tempio risulta già terminato nel 1757, ma “stante il numeroso concorso di persone trovavasi detta Chiesa sempre angusta come pure non potevano fare le funzioni sacre” [ACVC, Visista Pastorale G.L. Avogadro, 1766, f.664]. Fu pertanto deciso di costruire una nuova chiesa che, iniziata il 25 ottobre 1763, fu completata nel maggio del 1764.
 
Chiese distrutte o scomparse
Chiesa di Santa Maria delle Grazie (1474)
Costruita nel 1474 per iniziativa del del marchese Guglielmo di Monferrato il quale “perchè non mancassero mai i divoti [ottenne di] edificare in quello stesso giorno a sue spese un convento attiguo, il quale li diede ai Carmelitani della congregazione di Mantova” [Rerum Patriae, p. 245. Vedi anche voce sull’annesso convento “altre presenze religiose: conventi”]. Edificio imponente e maestoso, impostato su cinque navate, fu alienato in seguito alla soppressione degli ordini di epoca napoleonica e abbattuto [ASCT, Catasto, Mazzo 375, Vol. II, pp. 110-11].
Chiesa di San Desiderio (XIV secolo)
Citata nella visita pastorale di Ambrogio Aldegatti del 1568 come “ruinata”, non è più rintracciabile [ACVC, Visita Pastorale A. Aldegatti 1568, f. 21].
Altri edifici religiosi scomparsi
San Pietro di Pudenico (frazione Priorato), Chiesa del Pavonino o San Biagio (frazione Robella), Chiesa di San Martino, Chiesa di San Onorato, Chiesa delle Monache dell’Annunciata, Chiesa di San Grato, Chiesa e convento delle Terzine Domenicane [ACVC, Visite Pastorali: A. Aldegatti 1568, f. 21; C. Montiglio 1584, f.255r; Pietro Secondo Radicati, Risposte, 1723, f.707r; Itinerario Trinese, pp. 13, 16-17].
 
2. Confraternite
Confraternita delle Umiliate (1658)
La Confraternita risulta istituita nel 1658, come fa fede il testo di Irico e la loro presenza nelle principali processioni religiose [Itinerario Trinese, pp. 193-194].
Confraternita degli Angeli (1492)
La Confraternita risulta istituita il 20 marzo 1492 [G.C. Sciolla 1977, p. 20].
Confraternita dell’Orazione e della Morte (1583)
Nel 1583 la Confraternita di Santa Maria degli Angeli e di San Francesco decise di aggregarsi all’Arciconfraternita dell’Orazione e della Morte di Roma mutuando la propria denominazione [Itinerario Trinese, pp. 36-37].
Confraternita di San Giovanni Battista (XIII secolo)
La Confraternita del Gonfalone risulta già presente a Trino nel XIII secolo [Itinerario Trinese, p. 182]. La documentazione risulta dispersa: denominata anche “dei Disciplinati di Santa Caterina”, nel XVII secolo era già conosciuto come “Confraternita di San Giovanni Battista”, nome che ancora oggi conserva.
Confraternita della Santa Croce e San Pietro Martire (attestata dal XVI secolo)
Legata all’ordine domenicano, ottenne nel XVI secolo da questi il terreno e la possibilità di erigere una propria cappella. Nel corso del XVII si segnalò per una serie di tensioni con la Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli, conclusasi con la sostanziale sottomissione a quest’ultima e l’alienazione della loro sede ai domenicani entro il 1723 [Itinerario Trinese, p. 57; vedi anche voce “altre presenze ecclesiastiche: chiesa di San Pietro Martire].
Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli (1451)
La Confraternita si era costituita nel 1451: la costruzione della propria cappella a ridosso della parrocchia e sopra uno dei luoghi di culto più cari della città (la cappella del Beato Oglerio) è indice della potenza di una istituzione tra le più influenti di Trino in epoca moderna: nel XVII secolo gestiva l’Ospedale di Sant’Antonio Abate, il Monte di Pietà – fondato nel 1606 – e curava la manutenzione della chieda parrocchiale il cui altare maggiore era – ed è – di sua pertinenza. La fondazione del Monte di Pietà conferì alla Confraternita il controllo totale delle attività socio-economiche della città, giungendo a influenzare la stessa Collegiata. Le rendite e i donativi avevano raggiunto, nella prima metà del XVII secolo, dimensioni notevoli, al punto che possiamo ritenere la Confraternita la prima “azienda” della città di Trino  e uno dei perni economici della comunità: l’elenco dei beni trafugati al termine dell’assedio spagnolo del 1639 ci informa che nei magazzini della confraternita erano stoccate 600 libbre di seta tessuta in camici, tappezzeria e altri accessori religiosi [Inventario Trinese, p. 166]. Le perdite ed i danni subiti a causa degli eventi bellici furono presto ripianate e in meno di un decennio fu possibile a questa istituzione religiosa iniziare la scalata per il controllo dell’ufficio del Dazio di Trino, esercizio che venne acquisito nel 1657 dal marchese Rolando della Valle, il quale li aveva a sua volta acquisiti nel 1562 [ASCT, Mazzo 175, allegati al fascicolo 1]. In tal modo la compagnia era in grado di gestire direttamente la Congregazione di Carità creando le premesse per un suo pesante intervento sul piano finanziario, assistenziale e sanitario [vedi voce “altre presenze religiose: ospedali”]. Le altre confraternite, messe all’angolo, non poterono da allora che “limitare i danni”, cercando di conservare i propri spazi nelle cerimonie religiose e le attività sul territorio come processioni e presentazioni di sacre reliquie [Itinerario Trinese, p. 57].
 
3. Abbazie, monasteri, conventi
Abbazia di Lucedio (XII secolo)
L’Abbazia di Lucedio fu fondata da Ranieri, marchese del Monferrato, che nel 1123 vi chiamò i Cistercensi, probabilmente in sostituzione dei Benedettini [Giordano 1979, p. 73]. Il toponimo è già presente in un documento del 904 [Panero 1985, p. 17] e alcune tracce di occupazione di epoca romana [Borla 1982, p. 92] fanno ritenere che il luogo fosse abitato anche prima della fondazione del monastero, così come in molti casi analoghi [Comba 1985, p. 372]. Lucedio ricadde così sotto la protezione dei marchesi del Monferrato dai quali ebbero importanti donazioni [Sincero 1897, p.212; Giordano 1979, pp. 77-79] e la sua rapida ascesa provocò ripeture controversie con la vicina abbazia di San Genuario. Alle sei grange che costituivano la primitiva dotazione di Lucedio (Montarolo, Montarucco, Leri, Darola, Castelmerlino, Ramezzana) se ne aggiunsero altre, tra le quali Gazzo, Pobietto, Palazzolo, Ronsercco, Sale, Bianzé [Giordano 1979, p. 82; Cavanna 1980] rendendo l’abbazia uno dei protagonisti della riorganizzazione agraria dell’ampia area boscosa che divideva l’alto e il basso vercellese. Nonostante i notevoli rimaneggiamenti e guasti legati all’uso agricolo che hanno obliterato strutture più antiche, sono ancora distinguibili gli impianti della chiesa, del chiostro, i dormitori e il refettorio, mentre sono presenti ancora la cucina, i magazzini e il mulino. Altri fabbricati lungo il lato occidentale dovevano ospitare, oltre all’ingresso vero e proprio molto probabilmente fortificato, una corte destinata alle famiglie dei massari e ai recinti per gli animali, così come avviene nelle grange meglio note [Comba 1985, pp. 372-377]. La lettura di questo complesso rende Lucedio una realtà con complementare a Trino ma di fatto parallela, una comunità nella comunità, con proprie regole e una storia che si stacca, e talvolta si scontra, con quella della vicina città e il suo contado. Il patrimonio terriero dell'abbazia veniva amministrato secondo il sistema di gestione adottato - sistema comune all'intero ordine dei cistercensi - che si basava sulla suddivisione dei possedimenti del monastero in grange, parte delle quali fortificate (tra le quali sicuramente quelle di Leri e Darola), a capo di ciascuna delle quali non era posto un monaco (già gravato da impegni di ordine spirituale) ma un fratello converso che sapesse far fruttare la grangia. I conversi, che coordinavano a loro volta il lavoro di liberi contadini salariati (chiamati mercenari), rispondevano della loro attività al cellerario, monaco che curava, per conto dell'abate, l'amministrazione dell'intera abbazia [Bellero1986, pp. 337-351]. Nel 1457, con breve di papa Callisto III, il monastero cessò di essere di pertinenza diretta dell'ordine cistercense, divenendo Commenda, posta sotto il patronato dei Paleologi, marchesi del Monferrato (con diritto, di nomina dell'abate e di riscossione di rendite). Esauritasi, dopo quella degli Aleramici anche la dinastia dei Paleologi, il feudo passò ai Gonzaga subentrati a Casale nella reggenza del Monferrato; mentre i Savoia avevano iniziato ad avanzare loro presunti diritti sul monastero. Solo nel 1707 essi riuscirono a portare a compimento il loro disegno. Nel 1784 – dopo un periodo di forti attriti con la diocesi di Casale per la nomina dell'abate commendatario, l'abbazia venne secolarizzata e le sue grange divennero parte della Commenda Magistrale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi, ridotti ormai ad una decina, furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia. Nel 1792 l'Ordine di San Maurizio conferì la commenda al duca Vittorio Emanuele I di Savoia, ma dopo pochi anni il monastero cadde nei decreti napoleonici di soppressione degli ordini religiose. Fu proprio Napoleone a cedere la proprietà di Lucedio a Camillo Borghese, a parziale risarcimento delle collezioni d'arte che gli erano state requisite a Roma. Caduto Napoleone, si aprì una contesa tra Camillo Borghese ed i Savoia sul possesso di Lucedio. Le proprietà vennero divise in lotti e cedute a vari personaggi, tra i quali il padre di Camillo Benso, conte di Cavour. Il lotto con il complesso abbaziale di Lucedio passò sotto il controllo del Marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio che a sua volta, nel 1861, cedette la tenuta al duca genovese Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia conferirono il diritto di fregiarsi del titolo di Principe. Nacque così il cosiddetto Principato di Lucedio, denominazione che appare tuttora sul portale d'ingresso della tenuta. Attualmente essa appartiene alla famiglia Cavalli d'Olivola [Canonica 2006].
Convento dei Minori Osservanti di San Francesco (post 1453)
Situato sul fianco della chiesa di Santa Maria in Castro, il convento dei Minori Osservanti è attestato a Trino dal 1453. L’assetto attuale del convento è del XVII secolo. Il 20 giugno 1606 il comune deliberava di concorrere finanziariamente alla costruzione del nuovo complesso. Soppresso nel 1802, il convento fu riconsegnato ai Minori nel 1838: soppresso nuovamente nel 1866 fu alienato a privati [Itinerario Trinese, p. 198].
Convento dei Padri Carmelitani (Secolo XV)
Costruito nel 1474 per iniziativa del marchese del marchese Guglielmo di Monferrato il quale “perchè non mancassero mai i divoti [ottenne di] edificare in quello stesso giorno a sue spese un convento attiguo, il quale li diede ai Carmelitani della congregazione di Mantova” [Rerum Patriae, p. 245]. Le strutture, di notevole dimensione, furono colpite dalla soppressione degli ordini voluta da Napoleone ed alienate a privati [ASCT, Catasto, Mazzo 375, Vol. II, pp. 110-111].
Convento dei Padri Domenicani (secolo XV)
Il convento dei Domenicani venne costruito, con l’annessa chiesa [vedi voce “altre presenze ecclesiastiche: chiesa di Santa Caterina] su un terreno donato da Antonia Doreria il 4 marzo 1403, e venne terminato nel 1438 [Borla 1979, p. 42]. La documentazione risulta scarsa in quanto nel 1649 e nel 1668 i soldati ospitati nelle strutture incendiavano arredi e archivi [Borla 1977, pp. 150, 215]. Nel XVIII secolo, a partire dal 1750 e sino a tutto il 1765, l’edificio fu completamente ricostruito nelle forme attuali [Sciolla 1977, p. 24]. Con la soppressione degli istituti ecclesiastici nel 1802 l’edifico passa in proprietà al comune che, dopo averne sopraelevata una parte, lo destina a scuola elementare. Riscattato dai padri domenicani nel 1829, fu da questi utilizzato sino al 1863, otto anni dopo l’ulteriore decreto di espulsione, per ritornarvi solo nel 1899. La parte rimasta di proprietà comunale fu destinata prima a sede della Scuola di Avviamento Professionale e dell’Istituto di Meccanica Agraria. In un secondo tempo la scuola fu trasferita e il palazzo divenne sede della Biblioteca Civica e del’Archivio Storico del Comune [Borla 1979, p. 45].
Convento e Chiesa delle suore Terzine Domenicane del Santissimo Rosario (XIV secolo)
Il convento inizialmente fu costruito per le Clarisse, primo ordine religioso stabilitosi a Trino agli inizi del XIV secolo, 1302 o 1303 a seconda delle fonti. Nel 1490 il monastero venne ingrandito in seguito alle donazioni di Giovanna del Monferrato e un secolo più tardi, il 19 ottobre 1596, le Monache chiesero aiuto al duca di Monferrato in quanto “fatto principio ad una nuova chiesa per loro er anco per li secolari minacciando la sua vecchia grandissima ruina” si trovavano nell’impossibilità di completare i lavori [Sciolla 1977, p. 32]. Lavori di ampliamento saranno avviati nel 1757 e nel 1774. Con la soppressione degli ordini religiosi avvenuta nel 1802 il convento, abbandonato dalle Clarisse venne venduto a privati. Nel 1837 la contessa Gabriella Nomis di Cossila acquistò parte delle vecchie strutture e, con autorizzazione del vescovo di Vercelli, fondò il nuovo convento il 13 ottobre 1837 con sei suore e una conversa, allo scopo di gestire una scuola. Parte del fabbricato risultava però gravato da ipoteca: le monache pagarono in un primo tempo gli interessi di questa ipoteca e il 4 luglio 1853 comperarono dagli eredi Nomis le rimanenti parti del fabbricato che non erano state loro assegnate. Nel 1855 con il decreto di soppressione degli ordini acquistarono altri parti di caseggiato dai Nomis, mentre il resto del monastero divenne proprietà comunale che lo cedette alle suore in cambio di una loro presenza in qualità di insegnanti presso le scuole elementari [Itinerario Trinese, p. 223].
 
4. Ospedali
Ospedale di Sant’Antonio Abate
La fondazione dell’Ospedale di Sant’Antonio risale al XIV secolo, quando venenro riunificati due ospedali preesistenti, quello di San Lorenzo dei Lebbrosi e quello di San Giacomo dei Pellegrini. Nei primi decenni del XVII veniva già menzionata una chiesa di Sant’Antonio dell’Ospedale: questa struttura viene anche ricordata nel 1642, anno in cui assolse per un certo periodo alle funzione di parrocchiale [Borla 1977, pp. 12, 122; Sciolla 1977, p. 21]. Nel XVIII secolo l’ospedale si presentava in precarie condizioni e quasi in disuso. L’amministrazione richiese un prestito al Sacro Monte di Pietà che era gestito, al pari dell’ospedale stesso, dalla Confraternita del Santissimo Sacramento. Questa preferiva investire prima per il restauro di case e cascine proprietà dell’Ospedale prima che nell’Ospedale stesso: la scelta andava quindi verso interventi diretti a proprietà che fornivano un reddito, utilizzando poi i fondi del Monte di Pietà, concessi sotto forma di crediti, per la ricostruzione dell’Ospedale [Itinerario Trinese, p. 170]. Il cantiere venne effettivamente avviato nel 1756, prolungandosi con alterne vicende sino al 1781, dopo una interruzione durata dal 1776 al 1779 [Itinerario Trinese, p. 171].
 
5. Altre religioni
Comunità ebraica di Trino (XV secolo – 1930)
La presenza di una comunità ebraica a Trino è riconducile alla volontà di Guglielmo IX Paleologo di permettere agli ebrei di stabilirsi nel Monferrato dietro tributo annuo. Non è da escludere che la presenza della Corte monferrina in Trino sia stata un elemento catalizzatore per la presenza di ebrei in città. Occorre però attendere gli anni 1450-1550 per avere notizie sufficientemente certe su questi insediamenti. Nel 1525 si segnalarono due stampatori, Jacob B. Abigodoz e Nathanael Halfan di Perez, mentre nel 1539 risultano attivi due banchi di prestito aperti dagli ebrei Iosephe Clava e Ioacchino de Nizza. Nel 1576 i loro nipoti, Isaac e Israel apriranno un altro banco [Irico, p. 21]. Gli ebrei di Trino non ebbero l’obbligo di risiedere in un ghetto sino al 1723, quando Vittorio Amedeo II istituì i ghetti in tutto il regno di Sardegna. Nel ghetto trinese nel 1761 vivevano sei famiglie, per un totale di 35 persone. Il censimento del 1799 “per lo stato dei cittadini ebrei in Trino” segnala 26 maschi, 21 femmine, per un totale di quarantasette persone”, salite a novantaquattro nel 1832 e 99 nel 1835 [Irico, p. 25]. Nel 1837 sono ormai cento, dotati di una propria sinagoga, una Università Israelitica e una Compagnia della Misericordia – confraternita di beneficenza legata all’Università – e un cimitero. Il richiamo di centri come Vercelli e Torino iniziò a farsi sempre più forte e nel 1911 solo 40 residenti dichiaravano di essere di religione ebraica. Nel 1930 il nucleo ebraico di Trino era ormai ridotto a pochi individui e sia l’Università che la Compagnia della Misericordia venivano sciolte [Irico, p. 26]. La sinagoga veniva collocata di volta in volta in appositi locali affittati dalla comunità ebraica. Solo tra il 1740 ed il 1750, in un ambiente contiguo il palazzo municipale, fu costruita una nuova sinagoga [Irico, p. 60]. Questa rimase a Trino sino al 1964 quando venne trasferita in Israele e ricostruita nel Eretz Israel Museum di Tel Aviv [Itinerario Trinese, p. 249-250].
 
6. Proprietà e rendite.
Il Memoriale del consiglio comunale del 22 ottobre 1710, rifacendosi al registro Catastale del 1688-1689, riportava che i “Beni antichi di Chiese” erano in tutto 1.138 giornate di terreno, così suddivisi: Abbazia di Lucedio, 156 giornate; Priorato di San Pietro in Pudenico, 152 giornate; Prevostura, 110 giornate; Canonicato di San Michele, 43 giornate; Canonicato di San Onorato, 54 giornate; Canonicato di San defendente, 83 giornate; Seminario di Casale, 43 giornate; Commenda di San Giovanni, 98 giornate; Madri della Maddalena di Casale, 122 giornate; Monache dell’Annunciata, 221 giornate; Monache della Trinità, 130 giornate; Padri Domenicani, 68 giornate; Confraternita degli Apostoli 95 giornate, Ospedale di Sant’Antonio, 56 giornate; Monte di Pietà, 66 giornate [ASCT, Nuovo Catasto 1688-1689, Copia del Registro Universale, Mazzo 367]. I 14 enti religiosi trinesi riconosciuti nello stesso catasto possedevano anche beni immobili, 47 abitazioni così suddivise: Ospedale, 5 abitazioni; Monte di Pietà, 3; Convento dell’Annunciata, 7; Padri Domenicani, 6; Monache della Trinità, 4; Carmelitani, 5; Padri Ministrati di Occimiano, 1; Confraternita degli Apostoli, 3; Confraternita di San Giovanni, 3, Confraternita dell’Orazione e Morte, 3; Confraternita di San Pietro Martire, 1; Confraternita della Madonna del Carmine, 2; Confraternita della Madonna del Rosario, 1; Abbazia di Lucedio, 3 [ASCT, Ordinati Mazzo 14, Memoriale, 22 ottobre 1710].
Assetto Insediativo
Trino sembra oggi composta da un centro urbano regolare e razionalmente disposto, con strade che si intersecano ad angolo retto e quartieri a pianta rettangolare tagliati in modo precisi. In realtà si tratta del risultato di una impostazione edilizia molto tarda (XV secolo) per nulla scontata. Si dà qui di seguito l’evoluzione dell’assetto insediativo di Trino attraverso i secoli:
1. epoca romana
Trino è collocata in un territorio che fu densamente abitato in epoca romana. E’ nota l’esistenza di un insediamento di discrete proporzioni collocato nella zona occidentale del centro storico e conosciuto con il nome di Rigomagus. Si tratta di una località posta lungo l’asse stradale Vercelli-Pontestura (ad Pontem) Asti. Una serie di infrastrutture agricole e legate ai transiti era poi posta in prossimità della bretella stradale che, poco a nord, recava ad Augusta Taurinorum [Borla 1982, pp. 15-25]
2. X-XII secolo
La località di Trino è ricordata nell’elenco delle pievi del X secolo, ma il riferimento è alla Chiesa di San Michele, centro di un territorio che fu probabilmente densamente popolato in aiuto. “Trino di sotto”, o “villa”, viene citata per la prima volta nel 1014 [Panero 1985, p. 23] in due diplomi di Enrico II, nei quali è fatto cenno alla donazione di varie terre da parte dei marchesi di Monferrato, “in Tridino” e nella corte Auriola, all’abbazia di Fruttuaria e alla confisca di beni a due “domini, Sigefredus et Ingelbertus de Tridino”, fautori del deposto re Arduino, per farne dono al vescovo di Vercelli Leone [Avonto 1980, p. 233; vedi, sulla validità del documento, “dipendenze medioevo”]. Con un atto del 1115 il vescovo Uguccione concesse al marchese Guglielmo di Monferrato l’investitura di quanto la Chiesa vercellese possedeva “in castro fundo Tridini”. Si è compreso che questo luogo, composto da una fortificazione e una “villa”, di pertinenza vescovile, di trovava a sud della Stura e non è da confondere con il “Tridinum novum” [Panero 1979, pp. 117ss]. La precisa localizzazione è desumibile da un disegno della fine del XVI secolo, nel quale il castello è denominato “Palazzo vecchio del Signore”, nella zona degli attuali vicolo Sincero e via Lanza, un tempo non a caso detta “ruta militum” [Panero 1979, p. 123, fig. 3]. La forma apparentemente regolare della sezione più antica del centro storico è da imputare al riutilizzo di fondazioni di edifici romani della scomparsa Rigomagus. Nel VII-VIII secolo, data ipotizzabile della nascita del borgo, le tracce del distrutto “pagus”romano erano probabilmente non solo visibili, ma addirittura affioranti dal terreno e visibili, così da essere impiegate per la fondazione del nuovo insediamento, così come poco distante erano state impiegate nella vicina chiesa di San Michele per la ricostruzione dei questa [Borla 1982, p. 30].
3. XIII secolo
Ben distinto dalla “villa” di Trino, sottoposta alla giurisdizione vescovile, il “castrum qui dicitur burgum novum”, era situato a nord della Stura, nel territorio della corte Auriola, posseduta dai marchesi del Monferrato e acquistata nel 1202 dal comune di Vercelli. All’inizio del Settecento l’attuale chiesa di San Francesco era ancora denominata Santa Maria “in castro”, indicando l’appartenenza al borgo nuovo, come ricordava anche nel 1282 la sua denominazione di “sancta Maria de Burgonuovo” [Panero 1979, p. 119]. Nel 1210 il comune di Vercelli costituì il borgo franco di Trino e nel 1214 la vertenza venne definitivamente risolta con i marchesi per i territori ceduti nel 1202. I marchesi ebbero l’investitura di Pontestura e un indennizzo di 3.000 lire pavesi in cambio della rinuncia ad ogni pretesa su quanto essi avevano ceduto ai Vercellesi [Avonto 1980, p. 235].
4. XIV-XV secolo
Una volta posta Trino sotto il proprio controllo, con l’assedio del 1310, i marchesi del Monferrato poterono agire direttamente sul tessuto urbano cancellando le divisioni anche fisiche e giurisdizionali presenti nel tessuto urbano. L’arrivo dei Paleologi coincide con la costruzione di grandi complessi monastici come i conventi dei Domenicani, dei Carmelitani e dei Minori osservanti e l’arrivo di una comunità ebraica molto attiva dal punto di vista economico e artigianale. Furono iniziati i lavori di costruzione di un “palacium curie marchionalis” [Lusso-Panero 2008, p 121] sottintendendo una certa distanza, formale, dalla comune “facies” fortificata, e giuridica, dalle prerogative giurisdizionali collegate al “castrum vetus”, già vescovile, presso la porta meridionale del borgo. Soggetto ad ulteriori lavori di ampliamento nella seconda metà del XV secolo, i restauri del “palacium” di Trino coincidono con una razionalizzazione dell’abitato. Dopo questa fase di lavori appare tuttavia sempre più chiara la scelta dei marchesi di abbandonare il sistema delle corti itineranti per puntare su Casale come capitale dei propri domini, relegando i loro altri abituali luoghi di permanenza alla funzione di fortezze, residenze extraurbane stagionali o aziende di reddito.
5. Epoca moderna
Purtroppo per Trino la destinazione d’uso diviene quella di fortezza: il centro storico viene di fatto imprigionato nei primi anni del XVII secolo in una cerchia muraria “alla moderna”, ossia le mura medievali vengono rinforzate da opere bastionate in terra e legna. Non solo il centro storico non può espandersi, ma gli assedi del 1613, 1628, 1639, 1643, 1652 e 1658 portano ad un collasso della popolazione [vedi voce finale “Trino”] e ad un decadimento delle strutture architettoniche che, solo con molte difficoltà, saranno restaurate nel corso dello stesso secolo. Si dovrà attendere la demolizione delle fortificazioni nel 1672 per ordine di Carlo Emanuele I perché l’abitato trovi possibilità di espansione verso l’esterno. Il valore militare della città, a ridosso dei nuovi confini del Monferrato, a scapito delle piazzeforti di Vercelli e Verrua, viene così a mancare così come la presenza di truppe in città: pertanto fu possibile, nel corso del secolo successivo, dare inizio ad una seconda fase di rinnovamento edilizio che ancora oggi contraddistingue il paesaggio trinese.
Luoghi Scomparsi
Nel territorio di Trino possiamo identificare i seguenti luoghi scomparsi: Auriola, Darola, Leri e San Michele.
Auriola.
I re Ugo e Lotario donarono nel 933 “cortem que nominatur Auriola [...] cum castro et capellis” agli Aleramisi, che ebbero da allora dominio sulle terre comprese fra i corsi del Lamporo e dello Stura, confini settentrionali e meridionali della corte [Panero 1979, p. 21]. Identificata con Darola per l’assonanza [Sincero 1897, p. 56] ed accreditata in varia misura dall’Avonto [Avonto 1980, pp. 240-241] e dall’Ordano [Ordano 1985, p. 122], non soddisfa pienamente, in quanto la località di Darola è poco a nord del corsoattuale del Lamporo [Panero 1979, p. 22, nota 21] e pertanto esterna ai confini naturali della corte. Qualche dubbio può però permanere su quale fosse il reale corso del Lamporo nel X secolo, in una regione assai mutata dall’intensa attività agricola. Certo è che sia il toponimo Darola che quello di Leri ricordano rispettivamente “Auriola” e “Aleram” e rendono pressoché certa la localizzazione delal corte in questa parte del Vercellese [Giordano 1979, p. 96; Brola 1982, p. 38; San Michele 1989, pp. 18-19]. Decisivi elementi per approfondire le ricerche della località scomparsa sono offerti da Panero [Panero 1979, p. 22, nota 21] che ricorda l’esistenza di una chiesa di “Sancti Martini de Cortorola” in territorio trinese, ancora esistente nel 1220, e di un canale San Martino che scorre ad est di Montarolo; ad essi so aggiungono il toponimo “Castellacium” [San Michele 1989, f. 16, p. 56] del XV secolo, situato a nord di Trino, non lontano dalla località “ad Sanctum Martinum” e presso una “strata” indicata dal toponimo “ad stratam” la stessa probabilmente proveniente da “Ad Septimum” in direzione di Vercelli: la localizzazione della scomparsa Auriola è probabilmente tra la cascina Caluzzano e il canale di San Martino, lungo la strada di origine romana che un tempo toccava Tricerro. Di questa corte si fa menzione ancora nel 1014 [Sincero 1897, p. 57], e nel 112 dopo la fondazione di Lucedio, che appare sorta sul feudo denominato “Auriola” [Giordano 1979, o. 74]. Da allora se ne perdono le tracce.
Darola.
Il toponimo di Darola ricorda quello di Auriola [Giordano 1979, p. 96] e potrebbe derivare dalla contrazione di un “Ad Auriolam”, essendo il luogo prossimo ai confini settentrionali della corte omonima. Non si hanno però notizie certe di Darola se non dopo il XV secolo, ma è certo che una fortificazione di fu eretta alla fine del XIV sul sito di una delle grange dell’abbazia di Lucedio, come testimonia una delle torri ancora presenti in elevato. Nel 1457 si parla di un “castrum Daroliae” [Ordano 1985, p. 120]
Leri
Il luogo è menzionato con il toponimo “Aleram” nel diploma di Ottone III del 999 e con quello di “Alerh” in uno di Federico I nel 1159. Nel 1179 la grangia venne acquistata dal monastero di San Genuario, cui apparteneva già in buona parte. Nell’anno di quell’anno sono nominato il “castrum” e “cilla de loco Alerii” [Giordano 1979, p. 94]. Nel 1922 la grangia fu acquistata dal marchese Michele Benso di Cavour che trasformò Leri in una grande azienda modello, probabilmente eliminando o riadattando gli edifici più antichi.
San Michele.
Le indagini archeologiche condotte all’interno e all’esterno della chiesa a tre riprese tra il 1965, 1974 e 1984-1988 hanno appurato che l’anello ellittico di muratura del diametro di circa 100 metri (82 l’asse minore, 111 l’asse maggiore) sono il muro di cinta di un insediamento che si è sovrapposto ad un sito di epoca romana e tardo antica (I-VI secolo d.C.) allineato lungo l’asse viario Ticinum-Augusta Taurinorum, con la costruzione di un edificio molto ampio dotato di un portico frontale. Questa fase fu sigillata da uno strato di abbandono e da distruzioni causate da fenomeni alluvionali, come testimoniato dalla presenza di uno strato argilloso di deposito fluviale. Successive frequentazioni in epoca longobarda e carolingia (VII-VIII secolo) sono attestate dal toponimo (San Michele) e dall’analisi con termoluminescenza dei laterizi. In questa fase la chiesa era costituita da un sacello di ridotte dimensioni, una cappella, con base in laterizio e l’alzato ligneo. Nel IX-X secolo fu edificato un insediamento di capanne e una chiesa con area cimiteriale in muratura con sepolture interne ed esterne. Un evento di natura traumatica e violenta (incendio, saccheggio o combattimento) portarono ad una distruzione dell’area, alla quale seguì una fase di ripresa tra il X e l’XI secolo nella quale in borgo fortificato conobbe un nuovo sviluppo e la chiesa venne ricostruita [Sommo 2012, pp. 50-51; Arslan 1977, pp. 153-156]. Fra il XII e il XIII secolo l’impianto fortificato venne ristrutturato con torri ed un piccolo edificio autonomo staccato a protezione dell’ingresso. Il recinto fortificato seguiva un leggero rialzo del terreno ed era in antico parte contornato da zone acquitrinose. Il muro presentava regolari contrafforti all’interno che servivano a reggere un cammino di ronda interno in legno. Furono costruiti anche i vani di abitazione e servizio, addossati al recinto nella zona nord-est. Nel XIII secolo tuttavia il sito è ormai denominato “castellacium” nei documenti, termine che ne indica la decadenza [San Michele 1989; Negro Ponzi Mancini 1991, pp. 398-399].
Comunità, origine, funzionamento
Nei primi documenti inerenti Trino si menziona il “castrum Tridini”, mentre la comunità del luogo, sino ad allora associata alla realtà di San Michele, appare per la prima volta il 19 (o 20) febbraio 1167, in un atto di conferma e di donazione del marchese Guglielmo, nel quale è attestata la presenza di tre consoli e trentanove abitanti in funzione di rappresentanti della comunità [Panero 1979, p. 41]. La comunità di Trino ricompare nel 1170, quando avvalendosi dell’appoggio della Lega lombarda il comune di Vercelli poté rivendicare il possesso di Trino nei confronti dei marchesi del Monferrato. Dopo una serie di scontri armati, scorrerie e danni reciproci, il 26 marzo 1170 fu raggiunto un compromesso che poneva, almeno in temporaneamente, fine alle discordie. Si trattava di un successo per Vercelli, in quanto tra i vari punti dell’accordo di si faceva presente che “Tridinus et tota alia terra quam marchio habet inter Padum et Duriam et Sicidam debeat facere vicinantiam civitati Vercellarum pro fodro dando et fossato fatiendo et in alissi vicinantiiis sicut fatiunt alie terre hominum Vercellensis episcopatus” [Panero 1979, p. 33]. Nel 1182, in un successivo accordo tra Vercelli e i Monferrato, nuovamente gli “hominibus Tritini” sono chiamati in causa, anche se come elementi passivi del trattato, dopo che il borgo era stato assediato dai vercellesi ed incendiato [Borla 1982, pp. 46-47; Panero 1979, p. 34]. Nel 1202 il marchese Bonifacio di Monferrato, in previsione della partenza prossima per la quarta crociata, volle regolare ogni vertenza con il comune di Vercelli. Il 16 maggio dello stesso anno rinnovò con Vercelli il trattato di pace che aveva siglato due anni prima, pagò un indennizzo per i danni di guerra, e avviò le trattative per la vendita dei luoghi di Trino e borgonuovo, contigui ma considerati realtà tra di loro separate da un punto di vista giuridico, Punico e la foresta di Lucedio [Panero 1979, p. 36]. Nel 1214 si fa ancora distinzione, dei documenti ufficiali, se i trattati sottoscritti tra Vercelli e i Monferrato o tra questi e la comunità hanno effetto “in Tridino veteri sivie Tridino de subtus”, differenze che appaio sempre più marginali, e solo di forma, un secolo più tardi [Panero 1979, p. 47].
Nota generale. Il borgo di Trino, sia nella sua accezione di “Villa” che di “Borgonuovo”, fu sempre sottoposto ad una egemonia esterna, spesso temporanea, rappresentata di volta in volta dal vescovo di Vercelli, dal comune di Vercelli e dai marchesi del Monferrato, almeno per il periodo medievale. A Trino il comune non divenne mai un organismo con piena autonomia di governo: per tutti i secoli medievali l'ampliamento delle prerogative comunali era condizionato da una continua e non sempre pacifica dialettica con i poteri superiori, che affiancano alle magistrature locali propri funzionari sino ad affiancarli ed obliterarli nel XV secolo con la presenza della stessa corte monferrina in città.
 
Le origini del comune di Trino. La più antica attestazione dell’organizzazione comune a Trino del 19 (o 20) febbraio 1167, in un atto di conferma e di donazione del marchese Guglielmo, nel quale è attestata la presenza di tre consoli e trentanove abitanti in funzione di rappresentanti della comunità. A partire dal XIII secolo incomincia a delinearsi, a fianco dei consoli, anche la figura di un podestà: nel marzo del 1212 fu istituita la carica con nomina da parte vercellese [Panero 1979, p. 41, 43].
 
Le magistrature sotto la signoria monferrina. Nel 1275 Trino era tornata sotto il dominio dei marchesi del Monferrato. Il 22 ottobre di quello stesso anno il marchese Guglielmo concedeva ai trinesi una carta di franchigia con la quale rendeva relativamente autonoma l’amministrazione comunale locale. Essa regolava il sistema di elezione del podestà, il quale sarebbe stato proprosto dalla popolazione con una rosa di tre candidati [Sincero, p. 295]. Questo sistema di nomine fu temporaneamente soppresso tra il 1292 ed il 1304, quando Trino tornò in possesso del comune di Vercelli. Perso e ripreso da Vercelli nel 1304 – che per decisione della comunità la città era stata consegnata ai marchesi del Monferrato  - Trino entrò stabilmente nei domini di quest’ultimi nel 1310 ad opera di Teodoro Paleologo che occupò con la forza, oltre a Trino, anche Tricerro, Palazzolo, Fontanetto Po e Livorno Ferrati, tutte località già appartenenti al distretto comunale vercellese. Il 23 gennaio 1312 Trino otteneva dal marchese la conferma dei privilegi concessi da Guglielmo di Monferrato e già confermati da Giovanni I, con una rappresentanza nel parlamento generale del Monferrato il 3 settembre 1319 [Bozzola 1926, p. 12, doc. 3]. Dopo Cateau Cambrésis inizia a comparire la figura di un governatore militare, destinato a sovrintendere i lavori di costruzione e manutenzione delle fortificazioni e la gestione della guarnigione. Per tutto il XVII, sia con la dominazione sabauda che con quella dei Monferrato-Gonzaga, il governatore poteva essere anche un militare straniero (solitamente spagnolo o francese) a seconda delle vicende belliche del momento.
 
Le magistrature in epoca sabauda. Con le Regie Patenti del 1775, che uniformano la composizione dei consigli comunali in tutto il regno, Vittorio Amedeo III stabilisce che il consiglio comunale sia composto di 7 membri compreso il sindaco. Altre cariche previste che interessavano la comunità era un comandante della Piazza di Trino, dal momento che Trino era prevista tra le località sottoposte ad alloggio di truppa in transito o in campagna.
Statuti
Può considerarsi il primo statuto della comunità di Trino la raccolta di privilegi e franchigie concesse dal comune di Vercelli il 20 aprile 1212 [HPM, pp. 1188-1101]. Vercelli concedeva i diritti di pesca, di caccia e di pascolo su tutto il territorio di Trino, rinunciando a favore del borgo alle “albergarie generali”, tutti i diritti che il comune urbano si era riservato nel 1210. Vercelli di impegnava per cinque anni a corrispondere il salario del podestà di Trino, nominato dal comune cittadino, fatta eccezione per il rifornimento di fieno, paglia e legna che sarebbe toccato come obbligo ai trinesi. Per cinque anni a Trino sarebbero pervenuti tutti i proventi delle “iudicatre” e dei “banni” imposti dai propri consoli o dal podestà. Oltre a queste concessioni temporanee l’atto contemplava ancora la normativa inerente all’amministrazione della giustizia.
Nel 1275 Trino era tornata sotto il dominio dei marchesi del Monferrato. Il 22 ottobre di quello stesso anno il marchese Guglielmo concedeva ai trinesi una carta di franchigia con la quale rendeva relativamente autonoma l’amministrazione comunale locale [Sincero 1897, pp. 294-298]. Essa regolava il sistema di elezione del podestà, il quale sarebbe stato proprosto dalla popolazione con una rosa di tre candidati. Erano stabilite norme sui pedaggi, economia, amministrazione e imposizione delle multe, oltre al riconoscimento di tutte le franchigie ottenute precedentemente, con i diritti acquisiti su pascoli, boschi e corsi d’acqua. Il marchese dal canto suo manteneva i diritti bannali, il diritto di successione totale o parziale – a seconda dell’esistenza o meno di un testamento – nei confronti di coloro che non avessero consanguinei nel borgo.
Gli statuti furono raccolti in un registro “Copia Statutorum Tridini” dove si segnalano 555 capi, dei quali i primi 455 furono compilati o riformati con gli Statuti del 1212, 1375, 1305 e 1310, mentre gli ultimi cento furono aggiunti tra il 1402 ed il 1455 [ASCT, Statuti, Bandi Campestri, Dazio, Mazzo 1, “Copia Statutorum Tridini”]. Il volume conservato a Trino è in realtà una copia datata 1608 trascritta dal notaio Bernardino Casetti; senza modifche di sorta servì come base per la regolamentazione della vita amministrativa della comunità trinese sino al 1798.
Del 1795 risulta essere un “Ordinato per la riforma de Bandi politici, e indizia per la città di Trino” [ASCT, Statuti, Badi Campestri, Dazio, Mazzo 2].
I primi bandi campestri a stampa che è possibile rintracciare nell’archivio comunale sono i “Bandi Campesti per Territorio di Desana”, stampati a Torino il 6 dicembre 1783. Per i vari statuti del Bosco delle Sorti della Partecipanza si rimanda alla Raccolta de’ Statuti, Titoli, Giudicati e Sovrane Provvidenze comprovanti le prerogatice e diritti delle Famiglie Partecipanti sulli Boschi denominati della Partecipanza siti sul Territorio della Città di Trino, a cura di Francesco Bozzi, Torino 1825.
Catasti
I catasti più antichi del comune di Trino sono di epoca moderna:
  • 1524-1622. Catasto compilato a partire dal 1524 e aggiornato al 1624. Si compone di quattro registri [ASCT; Catasto; Mazzo 360, Vol. 1, Vol. 2; Mazzo 361, Vol. 3, Vol. 4].
  • 1688-1689. Si tratta di un aggiornamento al catasto del 1622. Tra il 1622 ed il 1688 non erano stati eseguiti aggiornamenti perdurando lo stato di guerra nella zona di Trino sino a tutto il 1659. [ASCT; Nuovo Catasto 1688-1689, Copia del Registro Universale, Mazzo 367; notizie sullo stato catastale di Trino si ritrova anche negli Ordinati, Mazzo 14, 1710].
  • 1754. Aggiornamento al catasto del 1689. [ASCT, Catasto, 1754, Mazzo 375, Vol. I].
  • 1796-1811. Questo è conosciuto anche come “Catasto Napoleonico”, in quanto i lavori di registro sono stati eseguiti principalmente sotto l’amministrazione napoleonica [ASCT, Catasto, Mazzo 375, Vol. II].
  • 1851. Aggiornamento al “Catasto Napoleonico” alla data del 1 maggio 1851 [ASCT, Catasto, Mazzo 381].
Ordinati
Gli Ordinati conservati presso l’Archivio Storico del Comune sono disponibili dal 1520 al 1891 [ASCT, Convocati e Deliberazioni del Consiglio Comunale di Trino, mazzi 1-60].
Dipendenze nel Medioevo
Sorto sulle terre della corte “Auriola”, dominio aleramico presente sin dalla prima metà del X secolo tra i corsi d’acqua Lamporo e Stura, che delimitano la piana dell’agro trinese, il “castellum Sancti Michaelis” venne rivendicato nel corso dell’XI secolo da parte dei vescovi di Vercelli, in particolare dal vescovo Leone che si adoperò attivamente per ottenere la conferma imperiale della signoria territoriale sulla regione, pressoché compatta, compresa tra i fiumi Dora Baltea, Po e Sesia in contrasto con i marchesi di Monferrato [Manaresi 1944, pp. 285-313; Panero 1979, pp. 25-27]. L’imperatore Corrado II ne diede una prima conferma alle rivendicazioni di Leone, seguito da Federico I nell’ottobre 1152 che garantì al vescovo Uguccione il possesso di “Tridinum cun suis pertinetiis” [MGH, Diplomata, X, parte I, p. 53, D. 31]. Conferma resa necessaria dal fatto che nello stesso Trino alcuni privati preferivano legarsi ai marchesi del Monferrato, come “Puganinus de Tridino” e “Oto Mocius de Tridino”, che preferivano come “dominus” appunto il marchese [Gabotto-Fisso 1907, p. 23, doc. 15]. Uguccione, come suggerito da Panero [Panero 1979, pp. 28-29], impensierito da tali derive, si preoccupò procurarsi diplomi – falsi – che gli permettessero una base giuridica sulla quale fondare le sue rivendicazioni. E’ il caso del diploma di Enrico II dove sono menzionati i “domini” di Trino, Sigefredus et Ingelbertus de Tridino” ai quali, per essere stati fautori di Arduino di Ivrea l’imperatore Enrico avrebbe confiscato tutti i beni, donati in seguito alla chiesa di Vercelli [Manaresi 1944, pp. 301-304]. Falsificazione che funzionò a dovere, e il vescovo poté acquisire reali diritti sulle terre e sul “castrum” di Trino che, pur essendo documentato per la prima volta solo nel 1155, esisteva a fianco della “villa” già dal 1100: tale costruzione sancì la costituzione di un diverso centro di attività giurisdizionale. La preoccupazione della chiesa vercellese, come accennato poco sopra, era dovuta alle presenza di un pericoloso antagonista, il marchesato del Monferrato il quale, tuttavia, dopo il diploma di Federico I del 1152, aveva come unica soluzione per la prevista espansione territoriale a sud della Stura l’investitura vescovile. Aspirazione appagata nel 1155, quando il marchese Guglielmo del Monferrato riuscì ad ottenere da vescovo Uguccione l’investitura del “castrum et fundum Tridini”: il marchese da parte sua si impegnava a difendere i domini della chiesa e a mettere a disposizione del vescovo il castello di Trino. Nel 1170, avvalendosi della rete di alleanze garantita dall’adesione alla Lega lombarda, il giovane comune di Vercelli poté rivendicare il possesso di Trino aspirando, con chiarezza di vedute strategiche politico-militari, a formare un proprio distretto sulle terre già patrimonio del vescovo di Vercelli. Trino rientrava in orbita vercellese, dopo una serie di scontri armati. Il marchese Guglielmo riconosceva la superiore giurisdizione territoriale del comune non solamente sull’insediamento e sul territorio posto a sud della Stura e già dipendenti dalla signoria vescovile, ma anche su tutte le terre della corte “Auriola” tra il Lamporo e la Stura. Le tensioni non furono spente: dopo la tregua di Venezia del 1177, i marchesi di Monferrato si sentirono abbastanza sicuri e forti da lasciare la Lega lombarda e ritornare in armi a Trino nel 1182 violando i patti del 1170. La riconquista della città, con distruzione e saccheggio da parte dei vercellesi, fu la base della pace dell’8 agosto 1182, secondo la quale i marchesi avrebbero rinunciato ad elevare castelli e fortificazioni tra la Dora Baltea e il Po ma lasciandoli di fatto signori di Trino: questa rimaneva possesso del vescovo di Vercelli il quale aveva infeudato il marchese di Monferrato, infeudazione che per il momento non era venuta meno [Panero 1979, p. 35]. Le guerre tra i Monferrato e Vercelli proseguirono comunque, con punte di recrudescenza, tra il 1199 ed il 1202. Proprio allora il marchese Bonifacio di Monferrato, in previsione della partenza prossima per la quarta crociata, volle regolare ogni vertenza con il comune di Vercelli. Il 16 maggio dello stesso anno rinnovò con Vercelli il trattato di pace che aveva siglato due anni prima, pagò un indennizzo per i danni di guerra, e avviò le trattative per la vendita dei luoghi di Trino, Pontestura con i villaggi circostanti [Panero 1979, p. 36]. L’atto di compravendita relativo a Trino, il borgonuovo di Trino, Punico e la foresta di Lucedio fu stipulato il 22 luglio 1202, lo stesso giorno dell’atto riguardante Pontestura: il giorno successivo un “nuntius” del comune di Vercelli prese possesso delle località oggetto dell’atto di vendita [Biscioni, I, pp. 203sgg, doc. 95]. Gli interessi del comune vercellese riguardavano soprattutto la giurisdizione territoriale del luogo, non solo sul “castro et villa” impliciti nell’atto di vendita, ma anche sul territorio circostante, soprattutto sugli antichi limiti del Lamporo e Stura, allontanando definitivamente i marchesi di Monferrato dalla zona. Ciò indusse il comune ad acquistare i cospicui beni allodiali signorili con i diritti giurisdizionali connessi acquisiti a suo tempo dai marchesi attraverso il possesso signorile della corte Auriola. Il marchese Guglielmo,  figlio di Bonifacio, nel 1209 denunciò l’atto di vendita, lo dichiarò nullo, e si appellò al Papa affermando che tale atto di compravendita mascherava un mutuo usurario ipotecario. Si trattava ovviamente di una scusa per ritornare in possesso di territori importanti a nord del Po  specie per le comunicazioni fluviali e terrestri: l’interesse per riscattare la vendita in caso di ripensamenti fu previsto in cento soldi da aggiungere alla cifra pagata, settemila lire pavesi, entro un periodo di cinque anni [Biscioni, I, p. 215, doc. 98]. Il marchese infeudò due esponenti della famiglia Avogadro, “Conradus et Brexanus Advocati de Tridino”, signori di Trino vecchia (il “castrum” e le abitazioni vicine). Il comune di Vercelli reagì concedendo numerose franchigie, alla comunità del borgo nuovo allo scopo di mantenerla fedele, sollevandola dalla prestazione degli “oneri rusticani” assimilando di fatto i trinesi ai cittadini vercellesi per tutto ciò che riguardava gli obblighi del fodro, dell’esercito e di ogni altra opera svolta a favore del comune [Panero 1979, pp. 41-44]. Nel novembre del 1214 il vescovo Ugone chiudeva la vertenza tra i Monferrato e Vercelli dichiarando valido l’atto di vendita, e rilevando da Corrado e Bressano Avogadro il “castrum”, mentre Vercelli avrebbe restituito Pontestura, con un compenso di 3.000 lire pavesi. Ugone, per chiudere definitivamente la vertenza, infeudò Trino vecchia direttamente il comune, il quale iniziò attivamente il popolamento della nuova espansione urbana [Panero 1979, pp. 46-47]. Nel 1275 la comunità trinese, mal sopportando la necessità di avere un podestà e di fatto un gruppo dirigente scelto da Vercelli, aprì nel 1275 le porte al marchese Guglielmo di Monferrato, il quale il 22 ottobre concedeva una carta di franchigia con la quale rendeva relativamente autonoma l’amministrazione locale con l’elezione del podestà attraverso una rosa di tre candidati. Erano stabilite norme sui pedaggi, economia, amministrazione e imposizione delle multe, oltre al riconoscimento di tutte le franchigie ottenute precedentemente, con i diritti acquisiti su pascoli, boschi e corsi d’acqua. Il marchese dal canto suo manteneva i diritti bannali, il diritto di successione totale o parziale – a seconda dell’esistenza o meno di un testamento – nei confronti di coloro che non avessero consanguinei nel borgo. Con la disfatta militare e politica di Guglielmo nel 1292 i vercellesi ripreso possesso di Trino sino al 1304, ripristinato gli obblighi precedenti. Nel 1304 Trino fu occupata dal marchese Giovanni di Monferrato: è assai probabile che sia stata la stessa comunità, come era avvenuto nel 1275, a richiamare i marchesi di Monferrato, ma la loro occupazione fu seguita dall’assedio vercellese del maggio del 1305 con gravi danni alla campagna circostante. Con la morte del marchese Giovanni avvenne la fine della dinastia aleramica: le comunità del Monferrato, riunite in “burgo Tridini sub caxina marchionatus”, il 9 marzo 1305 elessero i loro rappresentanti che si sarebbero recato in Oriente “a porre le terre di Monferrato sotto la signoria di Iolanda, moglie dell’imperatore Andronico II Paleologo e sorella del defunto marchese” [Bozzola 1926, p. 3, doc. 1]. Nonostante i voleri della comunità, Vercelli mantenne il controllo della zona sino al 1310, quando Trino fu occupata militarmente da Teodoro Paleologo, che prese con la forza anche Tricerro, Palazzolo, Fontanetto Po e Livorno Ferraris [Sincero, p. 93]. Nel gennaio del 1312 il Paleologo confermata i privilegi di Guglielmo di Monferrato e confermati da Giovanni I, con una propria rappresentanza nel parlamento del Monferrato [Bozzola 1926, p. 12, doc. 2].
Feudo
Nel 1559, con la pace di Cateau Cambrésis la città di Trino ed il suo territorio divennero appannaggio diretto del duca del Monferrato e di Mantova, Guglielmo Gonzaga (1538-1587). Solo il palacium Tridini o Castelvecchio fu venduto, come bene feudale, dai duchi del Monferrato quali signori di Trino a Giovanni Francesco Picco di Casale come proprietà del conte Antonio Picco Pastrone di Casale. Tale bene comprendeva “case, cassine, stalle, portici, granari, et altri edifficij a quali coherentiano a matta heredi di Antonio Colonna, Francesco Lasagna, Gianna Caresana, a mezzogiorno il corridore della Muraglia – attuale via Spalti di Ponente – a sera la via vicinale – attuale vicolo Sincero – a mezzanotte la contrada Militum” – attuale via Lanza. [ASCT, Nuovo Catasto 1688-1689, Copia del Registro Universale, Mazzo 367, p. 263; Borla p. 29]. Nel 1734 il proprietario era ancora il conte Giovanni Picco Pastrone [ASTO, Sezioni Riunite, art. 746, Investiture, 1734, Vol. I, f. 105] e nel 1810 più in generale la famiglia Picco [ASTO, Sezioni Riunite, Catasto francese Trino all. A, n. 244, all. G, fasc. n. 458]. Per quel che riguarda Trino ed il suo territorio la situazione di fatto non cambiò neppure dopo la conquista della città da parte di Carlo Emanuele I nel 1613 – con l’occupazione militare durata sino al 1617 – e nel 1628, questa sancita dal Trattato di Cherasco del 1631. I duca di Savoia, con il fine politico di legare alla corte di Torino la comunità trinese, mantenne inalterata la funzione di capoluogo di provincia e ottenne la promozione a “cognome di Città”. Il diploma originale risulta disperso sin dal 1639 quando “le scritture di questa Comunità per il saccheggio [spagnolo] si sono smarrite in buona parte essendo in quell’occasione rotto l’archivio”. Nella corrispondenza ducale tuttavia già nel 1634 Trino era chiaramente definita “città”, titolo riportato nei documenti a stampa ufficiali a partire dal gennaio 1649. Il “cognome di Città” fu riconfermato da Carlo Emanuele III il 17 gennaio 1763 [Borla, p 81], concedendo la signoria di Trino al duca del Chiablese, Benedetto Maria Maurizio di Savoia (1741-1808)  [Manno 1895, p. 256]. Nel 1814 Vittorio Emanuele I fu restaurato sul trono del regno di Sardegna: tra i titoli a lui attribuiti vi era anche quello di “principe di Trino”. Il principato passò a sua volta a Carlo Felice nel 1821, a Carlo Alberto nel 1831, a Vittorio Emanuele II nel 1849, Umberto I nel 1878, Vittorio Emanuele II nel 1900, Umberto II nel 1946.
Mutamenti di distrettuazione
Parte del marchesato di Monferrato sino al 1631, Trino divenne territorio del ducato di Savoia in seguito alla ratifica del trattato di pace di Cherasco (7 aprile 1631). Decaduta la monarchia sabauda nel dicembre del 1798 e proclamata la Repubblica Piemontese, il territorio fu riorganizzato il 2 aprile 1799 dal commissario Joseph M. Musset con la formazione di  4 Dipartimenti denominati Eridano, Dora, Tanaro e Sesia; in quest’ultimo era collocato il territorio di Trino. Il 2 aprile 1801 la Repubblica Subalpina fu divisa in 6 Dipartimenti: Po, Marengo, Tanaro, Sesia, Stura, Dora, a loro volta suddivisi in Circondari. Trino venne a trovarsi parte del Dipartimenti di Marengo: tale maglia amministrativa preannunciava l’annessione alla Francia, ufficializzata l’11 settembre 1802. Il territorio piemontese fu riorganizzato con il decreto imperiale del 17 prativo anno XIII (6 giugno 1805), quando il territorio dei Dipartimenti fu modificato. In tale occasione Trino venne staccato dal Dipartimento di Marengo ed assegnato a quello della Sesia. La provvisoria sistemazione territoriale del Regno di Sardegna del 1814 fu realizzata con l'editto di Vittorio Emanuele I del 7 ottobre 1814, poi rivisto con l'editto del 27 ottobre 1815 susseguente all'incorporazione della Liguria, mentre la riorganizzazione amministrativa definitiva fu sancita il 10 novembre 1818, quando venne stabilmente adottato un modello di compartimentazione basato su quello dell'Impero napoleonico e organizzato, sempre, su quattro livelli amministrativi: la Divisione corrispondente al Dipartimento francese e amministrata da un Governatore, la Provincia corrispondente all'Arrondissement, il Mandamento corrispondente al Cantone, ed il Comune. Il comune di Trino divenne sede di mandamento (Trino e Palazzolo) nella Divisione di Novara, Provincia di Vercelli. Il territorio di Trino passò indenne attraverso l’ordinamento di Carlo Alberto del 27 novembre 1847 che, attraverso il Regio editto per l'Amministrazione dei Comuni e delle Provincie del 27 novembre 1847, espanse il sistema amministrativo piemontese a tutto il territorio sabaudo, concesse la personalità giuridica ai due enti superiori ed istituì consigli elettivi divisionali e provinciali. A seguito del decreto Rattazzi del 13 ottobre 1859 La mandamento e il comune di Trino vennero a far parte del Circondario di Vercelli, nella Provincia di Novara. Nel 1927, Trino divenne parte della nuova provincia di Vercelli [R.D.L. 2 gennaio 1927, n. 1 “Riordinamento delle circoscrizioni provinciali” G.U. 11 gennaio 1927, n. 7].
Mutamenti Territoriali
E’ ipotizzabile che nel XIII secolo parte del territorio di Trino sia stato “sacrificato” per la fondazione di Tricerro. Quest’ultimo fu fondato 1218 dal comune di Vercelli e affrancato secondo le modalità già attuate a Trino (1210): non esistono attestazioni documentarie prima di tale data (Panero 1979, p. 40), anche se è possibile ipotizzare una preesistenza insediativa, probabilmente un piccolo abitato (villarium) dipendente dal territorio di Trino (Panero 1979, pp. 56-58).
Nel 1870 vengono scorporate dal territorio di Trino le frazioni di Torrioni, Salera, Saletta e Cascina Nuova per essere aggregati al comune di Costanzana (No) (R.D. 5714, 11 giugno 1870).
Comunanze
Per quel che riguarda le comunanze insistenti sul territorio di Trino possiamo individuare le seguenti tipologie di bene: 1. beni fondiari; 2. beni immobiliari; 3. Bosco delle Sorti della Partecipanza. Nota: per i punti 1 e 2 fanno fede i dati estratti dal Catasto del 1688-1689 ed il Memoriale del consiglio comunale del 22 ottobre 1710 [ASCT; Nuovo Catasto 1688-1689, Copia del Registro Universale, Mazzo 367; Ordinati, Mazzo 14, 1710].
Beni fondiari. Risultavano appartenenti al comune 343 giornate di terra, requisite per mancati pagamenti di tasse. Tali beni risultavano essere una sorta di “cassa” di beni da mettere in vendita sempre disponibile. Esenti da tassazione e considerati “beni della comunità” esistevano 520 giornate “tra pascoli, gerbidi e giare del Po” formati da 250 giornate formate da “l’Isola lungo il Po, con fornace comunale” ed altre 270 giornate composte da “gerbido e pascolo in regione Communetto a nord dell’Isola”.
Beni immobili. Al comune di Trino appartenevano 8 case, acquisite – come per i terreni – in seguito a mancati pagamenti di tasse. Dal XIX secolo appartengono al comune le strutture del Convento e della Chiesa delle suore Terzine Domenicane del Santissimo Rosario e il Convento dei Padri Domenicani (sede della Biblioteca e dell’Archivio Storico del Comune).
Bosco delle Sorti della Partecipanza. Nel 1182, a seguito delle distruzioni patite dal borgo di Trino in seguito all’assedio dei vercellesi. La ricostruzione delle case e delle fortificazioni abbattute da “incendium et ruina” necessitava di una grande quantità di legname: la concessione del bosco fu una naturale conseguenza di questa situazione di bisogno. Il territorio a cadere nella concessione non fu un terreno vescovile o comunale, ma marte della selva detta “di Lucedio” proprietà dei marchesi di Monferrato venduta al comune di Vercelli nel 1202. Successivamente il comune di Vercelli con un provvedimento del 19 aprile 1212 [G.C. Faccio, Il libro dei “Pacta et Conventiones” del Comune di Vercelli, Novara 1926, doc. 109, pp. 198-201] concesse (“investivit”) la comunità di Trino del godimento del bosco a fronte di un affitto, dal quale erano esenti “milites” e altri pochi privilegiati, i quali probabilmente già in precedenza erano esente da questo obbligo. Tale investitura presuppone un uso a concessione delle risorse boschive già radicato nella comunità trinese e già considerato quasi come un bene comune. Ciò a causa della necessità dei coloni del XII e XIII secolo di strappare terreno alla grande foresta vercellese per ricavare terreno agricolo. Nel 1265 e nel 1305 i Monferrato riconfermarono a Trino antichi diritti tra i quali era contemplato lo sfruttamento comunitario delle terre e dei boschi “comuni”. Qui il passaggio da “comune” a una parte della comunità” è da imputarsi al fatto che il privilegio del 1182, riconfermato nel secolo successivo, riguardava la totalità o quasi degli abitanti di allora. Segno tangibile di questo identità comunitaria dell’uso del bosco e della sovrapposizione “partecipanza-comunità” è data anche dal luogo delle riunioni, la parrocchiale di San Sebastiano. Ma questo privilegio non venne più allargato agli altri trinesi se non con la parziale ripartizione del 10 agosto 1593. Ciò aiuta a spiegare la ragione per cui, nella norma “De dividendis” sulla prima gestione del bosco (appunto del XII secolo), ci si riferisca a “quel tempo”, e non al preciso anno 1182, per quanto riguarda la distruzione e ricostruzione di Trino. Tale assenza di precisi termini cronologici suggerisce che l’investitura per la divisione annuale della legna del bosco, a favore di quegli abitanti che avevano contribuito alla ricostruzione, era inizialmente considerato un diritto non concesso a tutta la comunità, ma una sorta di diritto privato che ricadeva sui singoli. Si trattava, come già detto, della stragrande maggioranza ma nei secoli successivi gli immigranti, entrati stabilmente a far parte della cittadinanza, cresciuti sia di numero che di “peso” politico, economico e religioso sino ad assumere incarichi ai vertici del comune e delle confraternite, ritennero giusto, in quanto membri “nuovi” della comunità, chiedere di partecipare al godimento dell’uso della selva. Richiesta che nel XV e, soprattutto, nel XVI venne duramente osteggiata dai “partecipanti” che nelle “congreghe generali” del 1493, 1528, 1572 e 1593 sancirono un netto distacco tra il bosco e la comunità Trinese. Di fatto gli statuti del 1528, sopravissuti intatti sino al 1793 e successivamente modificati, sancirono il distacco di un bene comune transitato verso una sorta di bene privato comune [Le interpretazioni sulla nascita del bosco come uso civico sono molto contrastanti. Borla 1982, pp. 47-48, nota 149; Panero 1979, pp. 132-135; F. Crosio, La Partecipanza di Trino e il Bosco delle Sorti].
Liti Territoriali
Nel 1340, la comunità si scontrò con il comune di Trino per un bosco posto ai confini tra i territori dei due abitati [ACT, Liti mazzo 142, doc. in data 28 febbraio 1340]. Una mappa di età napoleonica riporta i beni contesi tra il comune e la Partecipanza di Trino [ACT, Mazzo 352). Sono documentate dal secolo XV (1425, 1445) le controversie territoriali intorno alla sponda sinistra del Po confinante con Trino, controversie persistenti fino alle soglie dell’età contemporanea. Esse interessano sia Camino sia Brusaschetto e spesso entrambe le comunità in quanto dipendenti dagli stessi signori, che controllano pedaggi e transito, grazie al «porto volante», su entrambe le sponde del fiume. Le controversie riguardano tipicamente i terreni affioranti con le variazioni dell’alveo fluviale, ma vedono, nel corso dell’età moderna, atteggiamenti non del tutto concordanti tra i signori di Camino e le comunità loro sottoposte: mentre infatti i signori vorrebbero un’attiva partecipazione delle amministrazioni comunitarie nelle contese giudiziarie e nella ricerca di un assetto territoriale definito, queste ultime dichiarano di patire il ruolo formale di «patrocinanti», anche se i loro abitanti, secondo le fonti settecentesche, “affittano” e coltivano a meliga i terreni controversi situati sulla sponda sinistra e contigui a Trino [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Confini per A e per B, T, n. 6, Documenti che risguardano li confini di Trino con Camino e Bruzzaschetto, di Crescentino e Verrua con Fontanetto e Moncestino e Villamiroglio, spezialmente per alvei abbandonati, alluvioni, isolette del Po, ragioni di porti e con un istromento di vendita di Moncestino, Villamiroglio e Rossingo fatta dai fratelli Mirogli Prevosto Gerosolimitano e Conte Andrea ai fratelli Pietro Francesco e Vincenzo. Coll’indice e tipi]. Per secoli gli uomini di Livorno si scontrarono con vari antagonisti per il possesso e per lo sfruttamento del territorio delle Apertole. Nelle liti furono parti in causa le comunità di Fontanetto Po, Crescentino e l’abbazia di San Genuario di Lucedio. Situate in un’area pianeggiante assai estesa ubicata a sud-est rispetto all’abitato di Livorno, a est rispetto al corso del Lamporo, derivanti dall’antica corte Auriola disgregatasi in età postcarolingia, destinate parte a gerbido, parte a prato e parte a coltivazione, le Apertole furono oggetto di una plurisecolare vertenza tra le comunità locali che appetivano il loro possesso e lo sfruttamento, in particolare per il pascolo, delle ricche risorse. L’area fu oggetto di numerosi interventi di bonifica e di potenziamento degli impianti di irrigazione e di canalizzazione delle acque. Nel 1392 l’abate di San Genuario di Lucedio dichiarava di fronte al commissario visconteo che le Apertole erano comuni fra la comunità di Crescentino e di San Genuario, mentre nulla spettava a Livorno e a Fontanetto, oltre la Stura” [Cancian 1975, doc. 77, pp. 237-240]. Fra il 1541 e il 1550 Livorno sostenne le sue ragioni sulle Apertole, contro le comunità di Fontanetto e di Crescentino, davanti al Senato di Milano e poi davanti ai delegati di Piemonte e Monferrato [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Confini per A e B, L, vol. 6, 1542-1561 e voll. 7-8, 1550; vol. 9, 1560-1624]. La lite sulle Apertole è attestata almeno dal XIV secolo, con documentazione fino al XVII [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Confini per A e B, L, voll. 1-9; cfr. anche L’abbazia di San Genuario, doc. 77, pp. 237-240, 1392 ottobre 9; ivi, doc. 105, pp. 494-511, 1498 maggio 26]. La conclusione della vertenza si può collocare nel 1695, allorché il duca di Savoia Vittorio Amedeo II entrò in possesso definitivo di tutto il territorio [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Confini per A e B, L, vol. 9, 1695 giugno 4], garantendo che “mai si sarebbe fatto lo scorporo del tenimento medesimo dal Comune di Livorno” [ASVC, Int. di Vc, I, Livorno Ferraris-Bianzè, n. 56; cfr. Luoghi fortificati fra Dora Baltea, Sesia e Po, p. 72].
Fonti
Fonti edite:
Biscioni, I: Biscioni (I), a cura di R. Ordano, Torino 1956, 1970, 1976 [BSSS 178, 181, 189]
Bozzola 1926; Parlamento del Monferrato, a cura di A. Bozzola, Bologna 1926.
Cancian 1975: L’abbazia di San Genuario di Lucedio e le sue pergamene, a cura di P. Cancian, BSSS, N. 193, Torino 1975.
Gabotto-Fisso 1907: Le carte dell’archivio capitolare di Casale Monferrato fino al 1313, a cura di F. Gabotto, U. Fisso, Vol. I,  Pinerolo 1907.
HPM: Historiae Patriae Monumenta, Vol. I,  Torino 1836.
MGH: Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, tomus I; tomus X, pars II.
 
Fonti inedite:
ACVC. Archivio della Curia Vescovile di Vercelli
ACT. Archivio del Comune di Tricerro
AOT. Archivio dell’Ospedale di Trino
APT. Archivio Parrocchiale di Trino
ASTO. Archivio di Stato, Torino
ASVC. Archivio di Stato, Vercelli
ASCT. Archivio Storico del Comune di Trino
Bibliografia
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Avonto 1980: L. Avonto, Andar per castelli. Da Vercelli da Biella tutto intorno, Torino 1980.
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Borla 1982: S. Borla, Trino dalla peristoria al medioevo. Le scoperte archeologiche. La basilica di San Michele in Insula, Trino 1982.
Borla 1979: S. Borla, Note di Storia e d’Arte a Trino, Trino 1979.
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Canonica 2006: M. Canonica, L’abbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio. Studio delle fasi di utilizzo del complesso monastico alla luce della documentazione storica fino al XIX secolo, Vercelli 2006.
Comba 1985: R. Comba, Le origini medievali dell’assetto insediativo moderno nelle campagne italiane, in “Storia d’Italia”, Annali 8, Insediamenti e territorio, Torino 1985, pp. 347-404.
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Sommo 2012: Luoghi fortificati fra Dora Baltera, Sesia e Po. Atlante aereofotografico dell’architettura fortificata sopravvissuta e dei siti abbandonati, a cura di G. Sommo, Vol. II, Vercelli 2012.
Verzone 1934: P. Verzone, L’architettura romanica nel Vercellese, Vercelli 1934.
Descrizione Comune
Trino
Nel rileggere la scheda di Trino si notano subito tre elementi caratterizzanti la vita della comunità:; la collocazione del nucleo insediativo, che si ingrandì tra il XIII ed il XVI secolo sino a raggiungere le dimensioni di una vera e propria città, sul una faglia di scontri geopolitici tra i Monferrato e Vercelli prima, e tra Savoia e Monferrato dopo (se riletta in chiave più ampia, come è lecito fare nel contesto delle Guerre d’Italia del XVI secolo e di quelle seicentesche, tra Francia e Spagna); i boschi e il territorio da colonizzare tra l’arco alpino e il fiume Po; la forte, dinamica e invasiva presenza delle Confraternite, specie quella del Santissimo Sacramento e degli Apostoli.
Siamo in una zona caratterizzata da un intenso uso agricolo dei suoli, sin dall’epoca romana. Trino di fatto poggia le sue fondazioni su un insediamento romano, il pagus di Rigomagus, posto lungo l’asse stradale l’asse stradale Vercelli-Pontestura (ad Pontem) Asti. Una serie di infrastrutture agricole e legate ai transiti era poi posta in prossimità della bretella stradale che, poco a nord, recava ad Augusta Taurinorum [Borla 1982, pp. 15-25]. Le tracce di questo insediamento servirono come base per un nuovo insediamento probabilmente già nel X secolo, quando i ruderi romani e la vicina pieve di San Michele segnalarono un ritorno insediativo più marcato della zona, ormai però da almeno cinque o sei secoli priva di uno sfruttamento dei suoli intensivo e caratterizzata da un ritorno delle foreste. Ricompare anche una nuova riorganizzazione amministrativa del territorio, incentrata nel nostro caso con la “corte Auriola”, dominio aleramico presente sin dalla prima metà del X secolo tra i corsi d’acqua Lamporo e Stura, che delimitano la piana dell’agro trinese. Trino, posto tra Vercelli e il Po lungo l’antico tragitto romano, era un insediamento che i vercellesi non volevano controllare. Il ponte di Pontestura (“Ad Pontem” nella dizione di epoca imperiale romana) probabilmente era collassato tra il III ed il IV secolo d.C., ma i transiti, sotto forma di traghetto, vedevano quel sito il luogo migliore per guadagnare la sponda destra del fiume, senza doversi recare ai guadi di Casale o a quelli di Verrua. Il “castellum Sancti Michaelis”, cioè l’insediamento sorto introno alla chiesa di San Miche, venne così rivendicato nel corso dell’XI secolo da parte dei vescovi di Vercelli, in particolare dal vescovo Leone che si adoperò attivamente per ottenere la conferma imperiale della signoria territoriale sulla regione, pressoché compatta, compresa tra i fiumi Dora Baltea, Po e Sesia in contrasto con i marchesi di Monferrato [Manaresi 1944, pp. 285-313; Panero 1979, pp. 25-27]. L’imperatore Corrado II ne diede una prima conferma alle rivendicazioni di Leone, seguito da Federico I nell’ottobre 1152 che garantì al vescovo Uguccione il possesso di “Tridinum cun suis pertinetiis”. Conferma resa necessaria dal fatto che nello stesso Trino alcuni privati preferivano legarsi ai marchesi del Monferrato, come “Puganinus de Tridino” e “Oto Mocius de Tridino”, che preferivano come “dominus” appunto il marchese. Uguccione, come suggerito da Panero [Panero 1979, pp. 28-29], impensierito da tali derive, si preoccupò procurarsi diplomi – falsi – che gli permettessero una base giuridica sulla quale fondare le sue rivendicazioni, come il falso diploma di Enrico II nel quale sono menzionati i “domini” di Trino, Sigefredus et Ingelbertus de Tridino” ai quali, per essere stati fautori di Arduino di Ivrea l’imperatore Enrico avrebbe confiscato tutti i beni, donati in seguito alla chiesa di Vercelli. Il vescovo poté infine acquisire reali diritti sulle terre e sul “castrum” di Trino che, pur essendo documentato per la prima volta solo nel 1155, esisteva a fianco della “villa” già dal 1100: tale costruzione sancì la costituzione di un diverso centro di attività giurisdizionale. A questo punto le frizioni tra Vercelli e Monferrato iniziarono – o, almeno, la documentazione archivistica inzia a lasciare traccia – a farsi acute per non sopirsi sino al XIV secolo. La preoccupazione della chiesa vercellese, come accennato poco sopra, era dovuta alle presenza di un pericoloso antagonista, il marchesato del Monferrato il quale, tuttavia, dopo il diploma di Federico I del 1152, aveva come unica soluzione per la prevista espansione territoriale a sud della Stura l’investitura vescovile. Aspirazione appagata nel 1155, quando il marchese Guglielmo del Monferrato riuscì ad ottenere da vescovo Uguccione l’investitura del “castrum et fundum Tridini”: il marchese da parte sua si impegnava a difendere i domini della chiesa e a mettere a disposizione del vescovo il castello di Trino. Nel 1170, avvalendosi della rete di alleanze garantita dall’adesione alla Lega lombarda, il comune di Vercelli poté rivendicare il possesso di Trino aspirando, con chiarezza di vedute strategiche politico-militari, a formare un proprio distretto sulle terre già patrimonio del vescovo di Vercelli e a creare un corridoio in direzione sud verso i guadi del Po. Trino rientrava così forzatamente in orbita vercellese, dopo una serie di scontri armati. Il marchese Guglielmo riconosceva la superiore giurisdizione territoriale del comune non solamente sull’insediamento e sul territorio posto a sud della Stura e già dipendenti dalla signoria vescovile, ma anche su tutte le terre della corte “Auriola” tra il Lamporo e la Stura. Le tensioni non furono spente: dopo la tregua di Venezia del 1177, i marchesi di Monferrato si sentirono abbastanza sicuri e forti da lasciare la Lega lombarda e ritornare in armi a Trino nel 1182 violando i patti del 1170. La riconquista della città, con distruzione e saccheggio da parte dei vercellesi, fu la base della pace dell’8 agosto 1182, secondo la quale i marchesi avrebbero rinunciato ad elevare castelli e fortificazioni tra la Dora Baltea e il Po ma lasciandoli di fatto signori di Trino: questa rimaneva possesso del vescovo di Vercelli il quale aveva infeudato il marchese di Monferrato, infeudazione che per il momento non era venuta meno. Le distruzioni patite nel 1182, pare piuttosto gravi, furono alla base della richiesta, o concessione, dello sfruttamento dei boschi a nord del centro abitato. La ricostruzione delle case e delle fortificazioni abbattute da “incendium et ruina” necessitava di una grande quantità di legname: la concessione del bosco da parte di Vercelli fu una naturale conseguenza di questa situazione di bisogno. Il territorio a cadere nella concessione non fu un terreno vescovile o comunale, ma marte della selva detta “di Lucedio” proprietà dei marchesi di Monferrato venduta al comune di Vercelli nel 1202. Successivamente il comune di Vercelli con un provvedimento del 19 aprile 1212 concesse (“investivit”) la comunità di Trino del godimento del bosco a fronte di un affitto, dal quale erano esenti “milites” e altri pochi privilegiati, i quali probabilmente già in precedenza erano esente da questo obbligo. Tale investitura presuppone un uso a concessione delle risorse boschive già radicato nella comunità trinese e già considerato quasi come un bene comune. Ciò a causa della necessità dei coloni del XII e XIII secolo di strappare terreno alla grande foresta vercellese per ricavare terreno agricolo. Nel 1265 e nel 1305 i Monferrato riconfermarono a Trino antichi diritti tra i quali era contemplato lo sfruttamento comunitario delle terre e dei boschi “comuni”. Qui il passaggio da “comune” a una parte della comunità” è da imputarsi al fatto che il privilegio del 1182, riconfermato nel secolo successivo, riguardava la totalità o quasi degli abitanti di allora. Segno tangibile di questo identità comunitaria dell’uso del bosco e della sovrapposizione “partecipanza-comunità” è data anche dal luogo delle riunioni, la parrocchiale di San Sebastiano. Ma questo privilegio non venne più allargato agli altri trinesi se non con la parziale ripartizione del 10 agosto 1593. nei secoli successivi al XII secolo gli immigranti, entrati stabilmente a far parte della cittadinanza, cresciuti sia di numero che di “peso” politico, economico e religioso sino ad assumere incarichi ai vertici del comune e delle confraternite, ritennero giusto, in quanto membri “nuovi” della comunità, chiedere di partecipare al godimento dell’uso della selva. Richiesta che nel XV e, soprattutto, nel XVI venne duramente osteggiata dai “partecipanti” che nelle “congreghe generali” del 1493, 1528, 1572 e 1593 sancirono un netto distacco tra il bosco e la comunità Trinese. Di fatto gli statuti del 1528, sopravissuti intatti sino al 1793 e successivamente modificati, sancirono il distacco di un bene comune transitato verso una sorta di bene privato comune. Distruzioni e fatti come questi segnano a ben vedere una presa di coscienza della comunità specie nei confronti di Vercelli: il comune cittadino iniziò una ricorsa al ripopolamento di Trino e alla concessione di franchigie sempre più ampie, mentre i trinesi sentivano Vercelli sempre più lontana. Nel 1275 la comunità trinese, mal sopportando la necessità di avere un podestà e di fatto un gruppo dirigente scelto da Vercelli, aprì nel 1275 le porte al marchese Guglielmo di Monferrato, il quale il 22 ottobre concedeva una carta di franchigia, base statutaria di Trino sino di fatto alla caduta del regno di Sardegna nel 1798, con la quale rendeva relativamente autonoma l’amministrazione locale con l’elezione del podestà attraverso una rosa di tre candidati. Erano stabilite norme sui pedaggi, economia, amministrazione e imposizione delle multe, oltre al riconoscimento di tutte le franchigie ottenute precedentemente, con i diritti acquisiti su pascoli, boschi e corsi d’acqua. Il marchese dal canto suo manteneva i diritti bannali, il diritto di successione totale o parziale – a seconda dell’esistenza o meno di un testamento – nei confronti di coloro che non avessero consanguinei nel borgo. Con la disfatta militare e politica di Guglielmo nel 1292 i vercellesi ripreso possesso di Trino sino al 1304, ripristinato gli obblighi precedenti. Nel 1304 Trino fu occupata dal marchese Giovanni di Monferrato: è assai probabile che sia stata la stessa comunità, come era avvenuto nel 1275, a richiamare i marchesi di Monferrato, ma la loro occupazione fu seguita dall’assedio vercellese del maggio del 1305 con gravi danni alla campagna circostante. Con la morte del marchese Giovanni avvenne la fine della dinastia aleramica: le comunità del Monferrato, riunite in “burgo Tridini sub caxina marchionatus”, il 9 marzo 1305 elessero i loro rappresentanti che si sarebbero recato in Oriente “a porre le terre di Monferrato sotto la signoria di Iolanda, moglie dell’imperatore Andronico II Paleologo e sorella del defunto marchese”. Nonostante i voleri della comunità, Vercelli mantenne il controllo della zona sino al 1310, quando Trino fu occupata militarmente da Teodoro Paleologo, che prese con la forza anche Tricerro, Palazzolo, Fontanetto Po e Livorno Ferraris. Nel gennaio del 1312 il Paleologo confermata i privilegi di Guglielmo di Monferrato e confermati da Giovanni I, con una propria rappresentanza nel parlamento del Monferrato. Una volta posta Trino sotto il proprio controllo, con l’assedio del 1310, i marchesi del Monferrato poterono agire direttamente sul tessuto urbano cancellando le divisioni anche fisiche e giurisdizionali presenti nel tessuto urbano. L’arrivo dei Paleologi coincide con la costruzione di grandi complessi monastici come i conventi dei Domenicani, dei Carmelitani e dei Minori osservanti e l’arrivo di una comunità ebraica molto attiva dal punto di vista economico e artigianale. Furono iniziati i lavori di costruzione di un “palacium curie marchionalis” sottintendendo una certa distanza, formale, dalla comune “facies” fortificata, e giuridica, dalle prerogative giurisdizionali collegate al “castrum vetus”, già vescovile, presso la porta meridionale del borgo. Soggetto ad ulteriori lavori di ampliamento nella seconda metà del XV secolo, i restauri del “palacium” di Trino coincidono con una razionalizzazione dell’abitato. Dopo questa fase di lavori appare tuttavia sempre più chiara la scelta dei marchesi di abbandonare il sistema delle corti itineranti per puntare su Casale come capitale dei propri domini, relegando i loro altri abituali luoghi di permanenza alla funzione di fortezze, residenze extraurbane stagionali o aziende di reddito. Purtroppo per Trino la destinazione d’uso diviene quella di fortezza: il centro storico viene di fatto imprigionato nei primi anni del XVII secolo in una cerchia muraria “alla moderna”, ossia le mura medievali vengono rinforzate da opere bastionate in terra e legna. Non solo il centro storico non poté espandersi, ma gli assedi del 1613, 1628, 1639, 1643, 1652 e 1658 portano al collasso di Trino. Le perdite di vite umane, soprattutto tra i civili, legati a questi eventi non deve essere sottostimato per comprendere il declino di un centro che nel XV secolo era una delle sedi marchionali del Monferrato, un secolo e mezzo dopo un abitato semiabbandonato e destinato ad una difficile ripresa. Nel 1672 il comune di Trino informava il duca che i capi famiglia residenti erano appena 200 [Borla 1977, p. 239].
 
Media delle nascite a Trino nel XVII secolo
decennio
Media annuale delle nascite
1601-1610
231,4
1611-1620
200,9
1621-1630
216,5
1631-1640
179,4
1641-1650
125,4
1651-1660
110
1661-1670
137,7
1671-1680
107,4
1681-1690
130,4
1691-1700
125
1701-1710
144,2
1711-1720
160,9
 
Fonti. APT, Libro de’ battezzati, Anni 1601-1720
 
Rispetto ad una media in “tempo di pace” delle nascite, con una popolazione complessiva di 3.171 persone nel 1604, possiamo notare un abbassamento repentino e continuo sino al decennio 1651-1660: la peste del 1630-1631, gli assedi del 1628 e 1639 furono i “grandi eventi” che portarono a questo crollo delle nascite. Ma l’abbassamento demografico continuò ad aumentare per tutto il decennio 1651-1660, a causa degli assedi del 1652 e 1658, con una continua depressione economica in atto. La media più bassa la raggiungiamo nel decennio 1671-1680, quando la mortalità dei decenni precedenti aveva ormai svuotato per metà la città. A causa dello sfollamento le nascite era statne nel 1671 di 135 bambini, nel 1672 di 127, nel 1673 di 88. Nel 1682 le nascite erano 110, metà circa rispetto a quelle del decennio 1601-1610. Dovendo ricostituire la milizia ducale e verificare la possibilità di riscuotere le taglie ducali, nel 1682 il consiglio comunale doveva costatare che si era proceduto “ad un ricavo generale di tutte li capi di casa, dal libro della levata de Sali, dal quale è rissoltato non esservi più di trecento capi di casa, cioè duecentocinquanta permanenti, et l’altri cinquanta non permanenti che vanno, vengono” [ASCT, Convocati e Deliberazioni del Consiglio Comunale di Trino, Mazzo 12, 1682]. Si noti che nel 1604 al senato di Monferrato i capi famiglia segnalati per Trino erano 916. Nel 1690 i capi famiglia salirono a quattrocento, ma ancora di faceva notare che “s’è spoppolata la Città in modo che di numero cinquecento Capi di casa, frà quali c’erano molte famiglie cospicue si è ridotta à pena numero quattrocento quasi tutte miserabili, sendo buona parte degli habitanti dell’hora in poi andati per sua dimora altrove” [ASCT, Convocati e Deliberazioni del Consiglio Comunale di Trino, Mazzo 12, 1690]. Anche il prelievo fiscale ci racconta di una situazione di difficoltà cronica. Persino la Camera dei Conti del duca di Savoia dovette arrendersi davanti all’evidenza e, a partire dal 1659, le “debiture ducali” furono portate da 18.000 a 14.000 lire annuali, mentre le guarnigioni che dalla pace di Cherasco continuavano a gravitare in città definitivamente allontanate, almeno “in casa de’ particolari” [Borla 1977, p. 189]. La situazione permane grave, soprattutto a causa dello spopolamento delle campagne e del centro cittadino. Le evasioni dalle imposte si aggravano sempre di più e nel consiglio comunale del 2 aprile 1668 di rileva che “vi sono molti e diversi conti da fare à diversi Particolari et specialmente quelli della taglie 1665, 1666 et 1667, quali si ritardano con grave pregiudicio di questo Publico à causa che li ss.ri Regionieri per giuste cause non vogliono assistere, ne intervenire” [ASCT, Convocati e Deliberazioni del Consiglio Comunale di Trino, Mazzo 12, 1668]. In sostanza a causa del disordine dei catasti, non più aggiornati dal 1622,e per una implicita solidarietà nei confronti degli evasori, la pubblica amministrazione non aveva intenzione di intraprendere azioni contro questi. Gli evasori trinesi, a causa delle case distrutte dalle operazioni belliche o dall’alloggiamento dei soldati, dei terreni non più coltivati o perduti, rifiutavano il mantenimento dei vecchi imponibili o il pagamento delle imposte. Il 4 gennaio 1669 giunse da Trino la richiesta di abbassare l’imposta ducale da 14.000 a 10.500 lire. La Camera dei Conti, constatando la disastrosa situazione, accolse la supplica abbassando per due anni le debiture a 11.500 lire, prorogata ad altri 4 anni il 13 marzo 1671 [Borla 1977, p. 222]. Nel contempo il comune di Trino, come era avvenuto per il comune di Vercelli nel XIII secolo, era alla ricerca di nuovi abitanti ed agevolava chi voleva acquistare la “borgheseria”, cioè la cittadinanza trinese in quanto, per avere questo privilegio, occorreva essere intestatario di beni immobili. Nel 1672 vennero abbattute le mura: nonostante la piazzaforte forse una calamita per gli eserciti seicenteschi, la comunità di Trino, legata anche a considerazioni tipiche del basso medioevo, vedeva la cinta urbana come una sorta di simbolo e protezione. La scelta dei duchi di Savoia, nella seconda metà del XVII secolo, fu quella di concentrare le risorse sulle nuove grandi fortezze di Vercelli sulla Sesia e Verrua sul Po. Il 19 aprile “seimila braccia sudarono nell’impresa” [Rerum Patriae, p. 400]: la città cessò a tutti gli effetti di essere una piazzaforte del ducato. Eppure, a 13 anni dalla chiusura dei conflitti italiani, la situazione di Trino era ancora disastrosa. Nel dicembre dello stesso anno il consiglio comunale scriveva al duca che ormai nel centro si poteva vedere “la toral desolatione di quel miserabil avanzo delle passate guerre che le lasciarono à pena la metà delle fabbriche in piedi” [Borla 1977, p. 229]. Davanti all’impotenza del comune sia di svolgere la ruolo di assistenza e controllo del territorio, e davanti ad una enorme assenza della chiesa trinese in genere – già svuotatta delle sue prerogative attraverso un processo demolitorio di  almeno un secolo , ampi spazi sono conquistati dalla Confraternita del Santissimo Sacramento e degli Apostoli. Costituita nel 1451 e insediatasi prima nella parrocchia di San Bartolomeo e poi, nel XVII secolo, nella cappella a ridosso della parrocchia e sopra uno dei luoghi di culto più cari della città (la cappella del Beato Oglerio), fu sicuramente l’istituzione più influenti di Trino in epoca moderna: nel XVII secolo gestiva l’Ospedale di Sant’Antonio Abate, il Monte di Pietà – fondato nel 1606 – e curava la manutenzione della chieda parrocchiale il cui altare maggiore era – ed è – di sua pertinenza. La fondazione del Monte di Pietà conferì alla Confraternita il controllo totale delle attività socio-economiche della città, giungendo a influenzare la stessa Collegiata. Le rendite e i donativi avevano raggiunto, nella prima metà del XVII secolo, dimensioni notevoli, al punto che possiamo ritenere la Confraternita la prima “azienda” della città di Trino  e uno dei perni economici della comunità: l’elenco dei beni trafugati al termine dell’assedio spagnolo del 1639 ci informa che nei magazzini della confraternita, pur in un periodo di forte crisi di questa istituzione, erano stoccate 600 libbre di seta tessuta in camici, tappezzeria e altri accessori religiosi. Le perdite ed i danni subiti a causa degli eventi bellici furono presto ripianate e in meno di un decennio fu possibile a questa istituzione religiosa iniziare la scalata per il controllo dell’ufficio del Dazio di Trino, esercizio che venne acquisito nel 1657 dal marchese Rolando della Valle, il quale li aveva a sua volta acquisiti nel 1562. In tal modo la compagnia era in grado di gestire direttamente la Congregazione di Carità creando le premesse per un suo pesante intervento sul piano finanziario, assistenziale e sanitario in aiuto di una popolazione che, come abbiamo visto, era ormai costretta in una situazione di grave indigenza e poteva fare scarso affidamento nei confronti delle amministrazioni comunali. Una posizione di prestigio che la Confraternita, importante quanto la “congrega” del Bosco delle Sorti della Partecipanza, non mancava di mettere in mostra nelle cerimonie religiose più importanti.