Moasca

AutoriRaviola, Alice B.
Anno Compilazione2005
Anno RevisioneVERSIONE PROVVISORIA
Provincia
Asti.
Area storica
Valle Belbo-Monferrato astigiano. Attualmente Moasca fa parte dei Comuni riuniti nella Comunità collinare "Tra Langa e Monferrato", avente sede a Costigliole d'Asti e della quale Canelli costituisce il centro principale (gli altri sono Castagnole Lanze; Calosso; Montegrosso d’Asti e Coazzolo).
Abitanti
422 (rilevamento del Comune al 31 luglio 2004).
Estensione
Kmq 4,13.
Confini
Canelli, San Marzano Oliveto, Calosso, Agliano d'Asti, Castelnuovo Calcea.
Frazioni
Nessuna frazione.
Toponimo storico
«Muasca», «Muascha», «Miasca».
Diocesi
Acqui. Tra le prime attestazioni disponibili, si può citare il contratto dotale tra Aloisia Cacherano e Secondino Asinari (cfr. infra) «actum in castro Muasche, Aquensis Diocesis» l’8 aprile 1373 [ASSL, Inv. 2, serie 3.3, Pergamene gruppo C, n. 19].
Pieve

Nessuna attestazione.

Altre Presenze Ecclesiastiche
Non avendo a disposizione notizie sulla situazione ecclesiastica di Moasca nel Medioevo, le prime fonti utili per ricostruirla in relazione ai secoli successivi sono le visite apostoliche e pastorali della seconda metà del XVI sec. Dalla prima, che è la visita apostolica di mons. Ragazzoni, vescovo di Bergamo, del 1577, si apprende che all’epoca la chiesa principale era la «parrocchiale di Santa Maria, unita all’abbatia di Susa o pertinente alla collatione d’essa», ancora da ultimare e corredare secondo i dettami del Concilio tridentino. Il visitatore dettò anche la seguente disposizione: «la parrochiale antica di S. Pietro si conservi ben coperta et ben serrata et se vi serri il cimiterio, et si celebri in detta chiesa molte volte per le anime de’ defunti» [ACVAT, Visite pastorali, scat. 1, cart. 3, fasc. 2, cc. 96v-97]. Pochi anni più tardi, però, durante l’accurata visita di mons. Carlo di Montiglio, vescovo di Casale (1585) [sulla quale cfr. Ferraris, 1997], la parrocchiale risulta essere intitolata a S. Pietro e affidata alla cura della Compagnia del Ss. Sacramento, che avrebbe dovuto unirsi «con quella di Santa Maria» per la gestione delle «indulgenze di Roma che sono in Santa Maria sopra Minerva». La parrocchiale più recente, dunque, era stata ribattezzata col nome di S. Pietro apostolo, abbandonato il titolo di S.ta Maria probabilmente ispirato dalla Compagnia confluita in quella del Ss. Sacramento. L’altra chiesa di San Pietro, «campestre», invece, era ormai «ruinata» e per questo mons. di Montiglio diede ordine di piantare «una croce ben ferma et grande nel sito d’essa acciò si conosci esso loco, da non adoprarsi in usi sordidi», senza però tentare un restauro dell’edificio. Diroccate e da distruggere erano anche le due «capelle di Santo Rocho et di Santo Nicolao, campestri» (non registrate nella visita di mons. Ragazzoni), i cui materiali avrebbero dovuto essere impiegati nei lavori di costruzione della parrocchiale [ACVAT, Visite pastorali, scat. 1, cart. 8, fasc. 2, cc. 202v-204].
Quest’ultima risulta nuovamente dedicata a Santa Maria in occasione della visita pastorale del vescovo di Acqui mons. Beccio, avvenuta il 23 ottobre 1608 [ivi, scat. 2, cart. 5, fasc. 1, cc. 20v-21]: «ad partem orientalem edificata», essa era «satis angusta…sed pro populi…pro nunc sufficiens», da riparare in molte sue parti e da munire di arredi sacri, candele, etc. La comunità avrebbe dovuto anche saldare un debito di 317 fiorini con il parrocco, a sua volta debitore del preposito di Sant’Ippolito di Nizza. Nonostante le indicazioni del Montiglio, continuava a resistere il rudere della «parochialis Sancti Petri antiqua», vicino al cimitero ancora in uso; anche il Beccio dispose di abbatterlo e sostituirlo con una croce, recintando il campo santo per evitare che fosse anche zona di pascolo per il bestiame. Tuttavia, per ragioni che andrebbero chiarite con l’ausilio di altre fonti, la popolazione del paese nutriva verso la chiesetta un attaccamento particolare: lo dimostra il fatto che nel 1637 il vicario vescovile Giovan Francesco Scapaccino osservò che «la chiesa campestre sotto il titulo di S. Pietro s’è incominciata a fabricar di novo». Ciò sebbene la parrocchiale fosse in buone condizioni e, ancora una volta, ridedicata a San Pietro come attesta il seguente ordine del vicario: «sopra la porta della chiesa si faci dipinger l’imagine di S. Pietro e vi si facci un portichetto avanti» [ivi, scat. 3, reg. 1, c. 206].
Ricostruita una prima volta nel 1698 [Fiore, s.d.], nel 1728, a vent’anni dall’annessione del Monferrato al ducato sabaudo, essa – che si presentava ben tenuta, «in buona architettura» e curata dalla Compagnia ora detta del Ss. Sacramento e del Rosario – continuava a coesistere con l’altra chiesa di S.Pietro, «tutt’aperta, senz’altare e senza porte», ma pur sempre frequentata a uso cimiteriale. Era attestato anche un Oratorio di San Rocco gestito da una Confraternita di circa 50 Disciplinanti in abito bianco [Copia delle relazioni delle visite pastorali di mons. Roero, 1728, ivi, scat. 5, fasc. 2, cc. 43v-45]. A fine Settecento la parrocchiale di S. Pietro, «tenuta bastevolmente colla dovuta nitidezza», e la confraternita di S. Rocco erano ancora attive, mentre non si aveva più traccia dell’antica chiesa di San Pietro e il cimitero a essa attiguo versava in pessimo stato di manutenzione. Erano sorte, però, altre due chiesette campestri, dedicate rispettivamente a San Giuseppe e alla Ss. Annunziata [Relazioni per le visite pastorali del vescovo Buronzo, 1787-88, ivi, scat. 7, fasc. 2, cc. 496-501, 1788, giugno 13]. Le segnalò anche Casalis a metà Ottocento – «fuori del recinto del villaggio sono la Ss. Nunziata e S. Giuseppe: quest'ultima fu, non è gran tempo, sospesa dall'ordinario» [Casalis, p. 404] – aggiungendo che, nel 1789, l'arciprete don Giuseppe Garocchio «fondò in Moasca un’opera pia la quale ha per iscopo di dotare figlie povere ed oneste e di mantenere alle pubbliche scuole alcuni giovani bramosi d'intraprendere la carriera ecclesiastica» [ibid.].
Attualmente è in funzione la sola parrocchiale, riedificata una seconda volta tra il 1930 e il '34 [ACVAT, Moasca, m. 1, cart. 1, fasc. 4], mentre la piccola confraternita, sconsacrata ma architettonicamente più pregevole, è talora utilizzata per esposizioni e conferenze.
Assetto Insediativo
«Il Comune è situato tra i fiumi Belbo e Nizza, a circa 30 km da Asti. Arrivando da Calosso, lungo la valle che scende da Canelli, il paese appare appoggiato dolcemente su "un tozzo colle verdeggiante, dalla sommità vasta e piatta"» [Scheda Moasca, con citazione da Bordone, 1976, p. 181]. Pur non contando frazioni riconosciute dal punto di vista amministrativo, non mancano piccoli nuclei abitativi sparsi attorno al concentrico, alcuni dei quali già riscontrabili nel catasto settecentesco: regione Annunziata; Pratovarino; Cassine; Valle Ormea; Muda e Burio.
Luoghi Scomparsi
L'unico luogo scomparso di cui si abbia notizia ha lasciato traccia nella contabilità dei beni dei Secco Suardo, più precisamente nel verbale dell'interrogatorio di tal Domenico Gavazza, di Castelnuovo Calcea, accusato dagli agenti dei feudatari di non aver pagato il pedaggio per il trasporto di vino da Moasca al suo paese. Lì si fa riferimento a un sito «dove si dice alla Lanzarotta», oggi non più riconoscibile [ASSL, Inv. 1, serie I.XXV.A (ma XXVI), cc. non inventariate, 1585, ottobre 7].
Comunità, origine, funzionamento
Secondo una possibile interpretazione «il toponimo terminante in -asca depone per un'origine ligure dell'insediamento» [Scheda Moasca]. Prestando fede a Gian Secondo De Canis, invece, le prime attestazioni del luogo risalirebbero al XIII sec. quando esso faceva «parte del piccolo contado di Acquosana, compreso in quello di Loreto, ed era per conseguenza tenuto dai marchesi di Busca» [De Canis, 1814, II, p. 224]. Il periodo può essere anticipato al sec. XII grazie a notizie della presenza di Moasca tra i beni dei signori di Canelli [Bordone, 1976, p. 181]. Nel 1217 questi ultimi li vendettero al Comune di Asti segnando così il passaggio della località alla diretta dipendenza dalla città [Scheda Moasca]. Una traccia del legame con la città, perdurato per tutto il XIV sec., è costituita da un atto del 1314 mediante il quale un «Henricus Gatus de Muascha» ottenne un prestito di 100 soldi «ab Helena Buratatore…ex causa mutui», promettendo alla donna e al marito Enrico, residenti in «Asti in domo domini Henrici Pellete que est in Monteoriolo», di restituire la somma entro tre anni sotto pena del pignoramento dei suoi beni mobili e immobili in caso di insolvenza [Cotto Meluccio, Fissore, Franco, 2002, doc. 187, atto del 26 gennaio, pp. 317-318].
La pressoché totale mancanza di altra documentazione risalente al Medioevo impedisce invece di fornire notizie sul principio del funzionamento di una comunità organizzata, dotata di statuti e di un consiglio municipale. Se ne ha traccia nel giuramento di fedeltà prestato nel 1366 dal «consilium et homines Muascae» a Isabella e Aloisia figlie dell'astigiano Daniele Cacherano [ASSL, Inv. 2, serie 3.3, Pergamene gruppo C, n. 14, 1366, ottobre 5]. Poche testimonianze dell'attività della comunità di Moasca, peraltro, si hanno anche per l'età moderna, data l’estrema lacunosità degli Ordinati [cfr. 'Fonti' e parte narrativa della scheda].
Catasti
Secondo l'attestazione dell'intendente Traffano, nell'aprile del 1753 «il cadastro si stava presentamente formando sulla nuova misura terminata l’anno scorso» [ASTO, Camerale, Seconda Archiviazione, capo 79, Statistica generale, reg. 3, 1753, aprile 15, Relazione della Provincia d'Acqui, c. 56]. L'opera di catastazione fu terminata nel 1765 e, oltre al registro del Catasto figurato, recentemente restaurato (AC Moasca, m. 2), si conservano anche il Libro delle colonne catastali compilato in quell'anno dal misuratore Carlo Giuseppe Bezzo (AC Moasca, m. 1, fasc. 8, restaurato anch'esso; cfr. anche m. 3 e m. 4) e un Libro dei trasporti catastali iniziato nel 1769 e concluso a metà del XIX sec. (ivi, fasc. 10).
Archivio della Curia Vescovile di Acqui Terme (ACVAT):
Visita apostolica di mons. Ragazzoni, 1577 [Visite pastorali, scat. 1, cart. 3, fasc. 2, cc. 96v-97; letta nella trascrizione dattiloscritta di P. Piana Toniolo]; Visita apostolica di mons. Carlo di Montiglio, 1585 [ivi, cart. 8, fasc. 2, cc. 202v-204]; Visita pastorale di mons. Camillo Beccio, 1608 [ivi, scat. 2, cart. 5, fasc. 1, cc. 20v-21]; Visita pastorale di mons. Crova (e del suo vicario don Giovan Francesco Scapaccino), 1633-41 [ivi, scat. 3, reg. 1, c. 206, 1637, gennaio 17]; Copia delle relazioni delle visite pastorali di mons. Roero, 1728 [ivi, scat. 5, fasc. 2, cc. 43v-45]; Relazioni per le visite pastorali del vescovo Buronzo, 1787-88 [ivi, scat. 7, fasc. 2, cc. 496-501].
Archivio Secco Suardo di Lurano, Lurano (Bg): 3 inventari parziali, uno dei quali ottocentesco e due (approssimativi e riguardanti solo alcune serie) compilati intorno agli anni '80 del secolo scorso:
inventario 1, serie I.B.a; serie II.B.1; serie I, VI.a.; serie I, X-XXVI; varie cc. non inventariate relative alla famiglia Secco Suardo e al feudo di Moasca;
inventario 2, serie 3.2, fassetto 25, cc. non inventariate relative alla famiglia Secco Suardo e al feudo di Moasca;
inventario 3, fasc. 1.2.12, castello di Moasca.
Ordinati
Della serie è sopravvissuto un solo quinternetto contenente i verbali di poche sedute tenutesi tra gli anni 1608 e 1615 (m. 1, fasc. 1).
Dipendenze nel Medioevo
Dopo una prima appartenenza alla sfera d'influenza del consortile dei signori di Canelli, nel corso del Duecento la località di Moasca fu soggetta a quella del Comune di Asti (cfr. supra), nonostante le frequenti incursioni alessandrine. Si sa, per esempio, che nel 1227, siglata una tregua nella guerra tra le due città, Alessandria restituì ad Asti tutte le terre occupate a sinistra del Belbo, Moasca compreso [Bordone, 1976, p. 182]. Durante le lotte tra guelfi e ghibellini, nel 1308, il castello del luogo, «presidio ghibellino dei De Castello, dopo 22 giorni di assedio viene totalmente distrutto dai guelfi Solaro» [Scheda Moasca]; la ricostruzione ebbe inizio nel 1351, a seguito dell'accettazione di Asti della protezione dei Visconti di Milano. Pur restando nell'orbita astigiana per altri sei decenni -come attesta l'infeudazione del luogo agli Asinari (cfr. infra)-, Moasca venne via via attratto da quella del vicino marchesato di Monferrato, fino a che, con atto del 27 gennaio 1435, il duca Ludovico di Savoia non ne investì il marchese Giovanni [Scheda Moasca]. Da allora, fino al 1708, la località fece parte del marchesato (poi ducato) di Monferrato, costituendo uno dei punti di confine con Canelli e con il contado d'Asti.
Feudo
Il 5 aprile 1382 il feudo, castello, beni e giurisdizione di Moasca furono infeudati ad Antonio, Secondino e Alessandro Asinari, padre e figli. La famiglia astigiana vendette il feudo a Serafino Santa Maria, esponente dell'emergente patriziato nicese nonché segretario marchionale, che ne ricevette investitura dal suo signore Giovan Giacomo di Monferrato nel 1418. L'appartenenza di Moasca al Monferrato fu formalizzata nel 1435 (cfr. supra) e da allora le sorti del feudo seguirono le volontà dei locali marchesi: fu Bonifacio III, nel 1489 (con atti 30 settembre e 5 ottobre 1489), a investire il patrizio bergamasco Francesco Suardo di parte della sua giurisdizione [ASSL, Inv. 1, serie I.B.a, LXII, s.d., Notizie sulla famiglia Suardo; ivi, fasc. 1173, Elenco dei documenti relativi al feudo di Moasca ed al casato Suardo, copie delle investiture], dando così avvio alla lunga dominazione locale della famiglia lombarda, agnata poi ai nobili Secco, anch'essi tra i principali casati di Bergamo.
Nel 1605 il nicese Caio Cesare Santa Maria, consignore di Moasca, vendette la sua porzione di feudo ai Secco Suardo [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Feudi per A e B, m. 51, fasc. 1], che divennero allora i soli feudatari del luogo conservandolo per un secolo e mezzo, anche a seguito della cessione del Monferrato al ducato sabaudo come testimoniano le conferme regie concesse tra il 1731 e il 1777 [ASSL, serie I, II.B.1, fasc. non numerato, post 1777, elenco delle investiture di Moasca concesse ai Secco Suardo tra il 1489 e il 1777]. Nel 1750 Andrea e Francesco Secco Suardi vendettero le proprie quote di feudo al marchese Pietro Ferdinando Muffat Saint Amour di Chanaz, che poi acquisì le rimanenti da Girolamo Secco Suardo [Manno; Guasco di Bisio; Scheda Moasca]. Tuttavia, come testimonia la data dell'ultima investitura menzionata, i Secco Suardo, in particolare nella persona del conte Andrea, continuarono a godere di diritti feudali sul luogo fino al tardo Settecento.
Mutamenti di distrettuazione
Al tempo della Relazione compilata dall'intendente della Provincia di Acqui Traffano, Moasca, appartenente alla Provincia di Acqui, risultava confinante con i luoghi di San Marzano, Canelli, Calosso, Agliano, Castelnuovo Calcea, «tutti della Provincia d'Asti» [ASTO, Camerale, Seconda Archiviazione, capo 79, Statistica generale, reg. 3, 1753, aprile 15, Relazione della Provincia d'Acqui, c. 56]. La dipendenza dalla Provincia di Acqui durò fino al 1814 quando, con editto regio del 7 ottobre, il luogo venne accorpato a quella di Asti [Scheda Moasca]. A metà del XIX sec. esso dipendeva dal mandamento di Canelli (con Calosso e San Marzano Oliveto: si veda la scheda dedicata a Canelli) (provincia di Asti, ma sotto la divisione di Alessandria) e faceva riferimento ad Asti per la Prefettura, a Mombercelli per la tappa d'insinuazione e a Canelli per la posta [Casalis, p. 403]. Nel 1929, nell’ambito degli accorpamenti promossi dal regime fascista, il Comune di Moasca, demograficamente oscillante tra le 700 e le 800 unità, fu soppresso e unito, in qualità di frazione, a quello di S. Marzano con il nome di S. Marzano Moasca. Riacquisì la sua autonomia nel 1947, entrando a far parte della provincia di Asti ricostituita nel 1935 [Balossino, 2002].
Comunanze
Il principale bene comune della comunità di Moasca fu, dal XVII secolo almeno, la cosiddetta «cascina del Gerbo», ceduta temporaneamente al conte Giulio Secco Suardo nel 1645, ma poi rivendicata come proprietà comunale fino alla fine del Settecento (cfr. parte narrativa della scheda). Ancora a metà Ottocento, essa veniva data in locazione al miglior offerente con contratti della durata di 9 anni [AC Moasca, cart. 1, fasc. 14, 1841, agosto 13, Avviso d’asta per parte della Comunità di Moasca per un novennio della cascina detta del Gerbo] e la pratica proseguì fino agli anni Venti del XX sec. [ivi, fasc. 28, 1904-20, Affittamento della cascina detta del Gerbo].
Fonti
A.C. M. (Archivio Storico del Comune di Moasca).  Riordino e inventario di G. Bogliolo e S. Balossino (2002).
     L'archivio storico comunale risulta fortemente lacunoso e depauperato delle fonti più antiche. Secondo la descrizione dell'intendente della Provincia di Acqui Traffano, versava in cattive condizioni già nel 1753: «l’archivio consiste in una guardarobba provvista di due chiavi differenti che si tengono da uno de’sindaci o segretario; è sprovisto di scriture, senza inventaro e si ritiene nella casa del Comune» [ASTO, Camerale, Seconda Archiviazione, capo 79, Statistica generale, reg. 3, 1753, aprile 15, Relazione della Provincia d'Acqui, c. 56]. Si segnala che l'Inventario del 2002 riporta in appendice anche l'inventario delle carte su Moasca conservate presso l'Archivio della Curia Vescovile di Acqui Terme, Fondo Parrocchie, Chiesa parrocchiale di S. Pietro di Moasca.
Si conservano cinque incartamenti di liti tra la comunità e i conti Secco-Suardo comprese tra gli anni 1725-1731 (m. 1, fascc. 2-6); gli atti prodotti in una lite contro il Procuratore generale di Torino tra il 1734 e il '35 (ivi, fasc. 7); gli atti di una lite tra il Comune e i feudatari s.d. ma risalente probabilmente al 1750 (ivi, fasc. 30).

A.S.T. (Archivio di Stato di Torino).
Corte, Paesi, Monferrato, Feudi per A e B, m. 51, sub vocem Muasca;
ivi, Confini, Carta topografica di Moasca, s.d., C 25@136
ivi, Paesi per A e B, m. 10 (5 fascc., 1823-38)
Camerale, Seconda Archiviazione, capo 79, Statistica generale, reg. 3, 1753, aprile 15, Relazione della Provincia d'Acqui, c. 56;
Bibliografia
S. Balossino, Introduzione storica all'Inventario dell'Archivio storico (1608-1975), dattiloscritto, 2002
G.S. De Canis, Corografia Astigiana, 1814, ms. presso la Biblioteca Consorziale Astense, 2 voll.
L. Fiore, Memorie della famiglia Fiore scritte dal capitano Lorenzo Fiore, ufficiale dell'esercito piemontese, s.d. (ma post 1881; lette nella trascrizione di R. Quaglia).
A. Ghignone, Ricerche sui bandi campestri di S. Marzano, tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, Facoltà di Giurisprudenza, sede di Alessandria, a.a. 1997-’98, rel. prof. C. Montanari.
M. Lupi, Genealogia della nobile famiglia Suardi di Bergamo, ms. in 2 voll. più albero genealogico, conservato in ASSL.
A. Manno, Il patriziato subalpino. Notizie di fatto storiche, genealogiche, feudali ed araldiche desunte da documenti, Civelli, Firenze, 1895-1906, 2 voll. a stampa (più 27 dattiloscritti).
BIBLIOGRAFIA A STAMPA:
R. Bordone, Da Asti tutto intorno, Torino, 1976
ID., Proposte per una lettura della Corografia di G.S. De Canis, Asti, 1977
ID., Città e territorio nell’Alto Medioevo. La società astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1980
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico commerciale degli Stati del Regno di Sardegna…, Torino, Maspero, 1833-1856, 28 voll., vol. 10, pp. 403-404
Censimento della popolazione del Regno d'Italia al dicembre 1881, Roma, Tip. Bodoniana, 1883, vol. I, p. 11
Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 febbraio 1901, Roma, Tip. Naz., 1902, vol. I
Censimento della popolazione del Regno d'Italia al dicembre 1911, Roma, Tip. Naz.,
Censimento della popolazione del Regno d'Italia al dicembre 1921, Roma, Stab. Poligrafico, 1927, V E.F.
Censimento generale della popolazione al 21 aprile 1931, Roma, 1933
Censimento generale della popolazione al 21 aprile 1936, Roma, 1937
Censimento generale della popolazione al 21 novembre 1951, Roma, Soc. Abete, 1955
A.M. Cotto Meluccio, G. Fissore, L. Franco, a cura di, Cartulari notarili dell'Archivio capitolare di Asti. I registri di Iacobus Sarrachus, notaio del vicario vescovile (1309-1316), Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 2002
M. Dolermo, Tra Restaurazione e aspirazioni separatiste: le Comunità ebraiche di Acqui e Nizza Monf., in «Quaderni dell’Érca», V, n. 10 (1998), pp. 39-57
G. Ferraris, Clero e fedeli nella diocesi di Casale Monferrato. La visita apostolica di Carlo Montiglio (1584), in Stefano Guazzo e Casale tra Cinque e Seicento, a cura di D. Ferrari, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 171-195.
M. Gallo, Asti e i suoi antichi conventi, Asti, 1960
F. Guasco di Bisio, Tavole genealogiche di famiglie nobili alessandrine e monferrine, Casale Monferrato, Tipografia cooperativa, 1924-45, 12 voll.
Informazioni statistiche raccolte dalla Regia Commissione superiore per gli Stati di S. M. in terraferma, Torino, Stamperia Reale, 1839
M. Maderna, Ricerche sul castello di Moasca e proposte di restauro (titolo provvisorio), in Moasca (titolo provvisorio), a cura di R. Bordone e B.A. Raviola, “Quaderni della Provincia di Asti”, in corso di stampa
G. Medolago, Il castello di Cenate di Sotto e la famiglia Lupi, Cenate Sotto, 2003 (con albero genealogico dei Suardi, imparentati ai Lupi)
A. Migliardi, Vicende storiche di Nizza Monferrato, Nizza, 1925 (III ed. 2000)
G. Parodi, Dalle visite pastorali dell’Archivio Vescovile di Acqui. Cerimoniali di accoglienza dei Vescovi e controllo del territorio in Valle Belbo, in Tra Belbo e Bormida, cit., pp. 67-80
B.A. Raviola, Il Monferrato gonzaghesco. Istituzioni ed élites di un micro-Stato (1536-1708), Firenze, Olschki, 2003
Ead., Tra Monferrato e Astigiano. Nuclei di potere ed élites in Valle Belbo nella prima età moderna, in Tra Belbo e Bormida, cit., pp. 47-56
Scheda Moasca, in Castelli e "ville-forti" nella Provincia di Asti, s.n.t. 
Tra Belbo e Bormida. Luoghi e itinerari di un patrimonio culturale, a cura di A. Torre, E. Ragusa, Asti, Provincia di Asti, 2003
R. Zangheri, Catasti e storia della proprietà terriera, Torino, Einaudi, 1980.
Descrizione Comune

Moasca

     Il dato emergente da un'analisi delle vicende di Moasca nel Medioevo e in età moderna è senza dubbio quello della posizione di confine che il luogo rivestì in entrambi i periodi tra Astigiano e Monferrato, rientrando tra Due e Trecento nella sfera d'influenza del primo e facendo parte a pieno titolo del secondo dal Quattrocento. Dal punto di vista geografico, lo spartiacque è costituito dal fiume Belbo che però, abbandonando il piano squisitamente amministrativo-istituzionale, si è di recente rivelato fulcro di un'area leggibile come territorio omogeneo, almeno per determinati aspetti: la presenza di famiglie feudali forti come gli Scarampi; la vicinanza con la riviera ligure; la vivacità di collegamento con la stessa a scopi commerciali; la riconoscibilità di alcune tradizioni cultuali e storico-artistiche [Tra Belbo e Bormida, 2003]. Da questi fattori non si può dunque prescindere nel tracciare un profilo storico di Moasca che tenga conto del contesto più ampio in cui il piccolo paese è stato ed è inserito.
Il primo aspetto, ovvero la posizione confinaria del luogo unita alla relativa strategicità dell'altura su cui esso sorge, è reso evidente dal castello che, come è stato osservato, sin dal Medioevo è l'«elemento che caratterizza in modo distintivo il villaggio rurale» [Balossino, 2002]. Di origine duecentesca, esso fu distrutto nel 1308, durante le lotte tra i guelfi Solaro e i ghibellini del Carretto, cui erano legati i De Castello di Moasca. La ricostruzione dell'edificio ebbe inizio nel 1351, dopo che Asti accettò la protezione dei Visconti di Milano: questa, almeno, è l'interpretazione suggerita da Gian Secondo De Canis nel tentativo di decifrare l'iscrizione di una lapide posta sulla porta del castello («1351. quinto die februarii, fieri fecerunt: tutto il resto per essere corroso e mancante non fu possibile leggerlo…») [Bordone, 1977, p. 150]. La centralità del castello, le cui possenti vestigia dominano tuttora la fisionomia del centro abitato, è spia altresì dell'importanza del ruolo feudale di Moasca, giocato dapprima in relazione con Asti: oltre alla generica testimonianza della presenza in loco dei ghibellini De Castello, vanno segnalati il giuramento di fedeltà prestato nel 1366 dal «consilium et homines Muascae» a Isabella e Aloisia figlie dell'astigiano Daniele Cacherano [ASSL, Inv. 2, serie 3.3, Pergamene gruppo C, n. 14, 1366, ottobre 5, notaio Francesco Genta, di Costigliole]; la rinuncia in dote dei beni di Moasca fatta da Aloisia a favore del marito Secondino Asinari [ivi, n. 19, 1373, aprile 8] e, ancora, l'infeudazione del luogo accordata ai nobili astigiani Antonio, Secondino e Alessandro Asinari il 5 aprile 1382 [cfr. supra, voce 'Feudo'].
Tuttavia il crescente potere del vicino marchesato di Monferrato fece sì che anche Moasca, vicinissimo a Nizza e già appartenente alla diocesi di Acqui, venisse attratto dalla sua orbita, in un primo tempo con l'alienazione del feudo fatta dagli Asinari a favore del segretario marchionale nicese Serafino Santa Maria (1418), quindi con l'investitura del luogo riconosciuta dal duca Ludovico di Savoia al marchese Giovanni di Monferrato il 27 gennaio 1435. Da allora le vicende della comunità – della quale, a causa della lacunosità documentaria, risulta difficile individuare l'origine e il peso politico almeno fino al Cinquecento – appaiono strettamente intrecciate a quelle del marchesato (poi ducato) di Monferrato. Ne è prova la cessione di alcune porzioni del feudo accordata da Bonifacio III Paleologo al patrizio bergamasco Francesco Suardo nel 1489 [ASSL, Inv. 1, serie I, fasc. 1173; Raviola, Tra Monferrato e Astigiano, 2003, p. 52].
Nel corso del XVI secolo il patrimonio moaschese dei Secco Suardo, che pure continuavano a risiedere a Bergamo e a investire nei vicini feudi di Lurano e Zanica, crebbe considerevolmente: secondo un testimoniale del 1583 rilasciato da Cesare e Luigi Asinari per conto di Ludovico e Galeazzo Secco Suardo, rappresentati dal castellano Antonio Suardo e dal procuratore Giovanni Antonio Suardo, le proprietà descritte a loro nome nel registro della comunità ammontavano a 265 giornate, 1 stara e 15 tavole. Calcolato che ogni giornata di quei terreni valeva 40 scudi d'oro, si trattava di un reddito di 10.505 scudi, «incluse le doe cassine dove stanno li massari con una casetta qual è in fondo il ponte dil castello» ma non quest'ultimo immobile che, da solo, valeva almeno 3000 scudi [ASSL, Inv. 1, serie I.XXV.a (ma XXVI), 1583, maggio 21]. Si trattava di cifre notevoli, soprattutto se si tiene conto del fatto che, all'epoca, Moasca contava appena 32 fuochi per un totale di 189 abitanti, Suardo compresi [ivi, 1591, novembre 24, Nota delle persone che si trovino in Moascha].
Nel 1605, la famiglia bergamasca acquisì l'intera giurisdizione del feudo comprando per 15.555 scudi la porzione che era rimasta al nicese Caio Cesare Santa Maria [ASTO, Corte, Paesi, Monferrato, Feudi per A e B, m. 51, fasc. 1, 1612, settembre 20, Relazione del presidente Avellani sopra la pretensione di Caio Cesare Santa Maria d'esser risarcito dalli conti…Sechi Suardi, de' danni e spese patite per la mora dello sborso del denaro convenuto nel contratto di vendita…del feudo di Muasca].
Per quanto riguarda l'ammnistrazione della comunità, i pochi resti dei verbali del consiglio comunale, risalenti agli anni 1608-1615, lasciano trasparire l'inevitabile legame commerciale con i due centri maggiori di Canelli e Nizza. Al primo, dipendente dal ducato sabaudo, si faceva ricorso sia per il mercato del bestiame e del grano sia per ottenere prestiti in denaro, che possiamo supporre sempre più urgenti (ma difficili da ottenere) negli anni della prima guerra di Monferrato: il 4 ottobre 1608, per esempio, il sindaco Giulio Suardo e i consiglieri elessero il collega Andrea Loazzolo affinché si recasse «ad locum Canellarum ad dominum Petrum Paulum Picium ab eo levandum scutos quadraginta pro paga carnis pro servitio dicte communitatis» [AC Moasca, m. 1, fasc. 1, c. 28v]. Il 1° dicembre dello stesso anno il nuovo procuratore Guglielmo Loazzolo dovette rivolgersi nuovamente al canellese Pizio per «impermudare sachi otto di grano per servitio di detta comunità, per causa di pagare doppie 5 et meggia di Spagna in Camera…et doppie 3 di Spagna per li accordii del dacio generale» [ivi, c. 29v]. La pratica di impegnare sacchi di grano a Canelli in cambio di denaro pare una costante anche degli anni immediatamente successivi [cfr. ivi, c. 36v, seduta del 30 giugno 1609].
Il rapporto con Nizza, com'è ovvio, aveva invece una connotazione più istituzionale: sebbene il consiglio non mancasse di far ricorso alla locale comunità ebraica per ottenere altri prestiti [cfr. ivi, c. 30v, seduta dell'8 dicembre 1608; sugli ebrei a Nizza cfr. Dolermo, 1998], da Nizza provenivano in genere i podestà del paese scelti dai Santa Maria per le quote di giurisdizione di loro competenza -per il 1609 Caio Cesare Santa Maria scelse il concittadino Giovanni Andrea Rosso [AC Moasca, m. 1, fasc. 1, c. 29v]- e sempre da Nizza giungevano gli ordini emanati dalle magistrature monferrine, riguardanti per lo più il pagamento del dazio e delle contribuzioni militari.
Dai pochi Ordinati a disposizione filtra anche qualche elemento sulla composizione del consiglio moaschese, retto a rotazione trimestrale da un sindaco e da un numero di consiglieri variabile da 5 a 8. A predominare paiono gli esponenti delle famiglie (della) Fiore, Loazzolo, Scarrone, Poglio, Buzzo e Suardo, per i quali ultimi può essere confermata l'ipotesi dell'originario rapporto di parentela con i Secco Suardo. In assenza di altre fonti, l’analisi di questa piccola élite, che sarebbe qui fuorviante, potrebbe in parte essere condotta grazie alle carte della parrocchia di S. Pietro conservate presso l’Archivio della Curia Vescovile di Acqui Terme: passandole in rassegna rapidamente, si nota che alla chiesa risultava particolarmente legata la famiglia Fiore, detentrice di benefici e cappellanie sin dal XVII sec. [ACVAT, Fondo parrocchie, Moasca, Parrocchia di S. Pietro, m. 1, cart. 6, fasc. 1, 1631-1795; ivi, cart. 1, fasc. 2, 1738]. Studiando anche i processi lì depositati [ivi, m. 3], si potrebbero forse cogliere le dinamiche e gli attriti sociali che portarono alla creazione di Compagnie devozionali interne alla parrocchiale e all’oratorio di S. Rocco (1722), nonché trovare una qualche spiegazione alla coesistenza di due edifici di culto dedicati a S.Pietro – l’antica chiesa cimiteriale e la parrocchiale di fine Cinquecento, già intitolata a Santa Maria e originariamente dipendente, pare, da un beneficio di Susa – con un particolare attaccamento degli abitanti del paese al primo (cfr. supra voce ‘Altre presenze ecclesiastiche’).
I contrasti con la famiglia di feudatari si fecero più frequenti a partire dagli anni Venti del Settecento, soprattutto a causa dell'esazione di un censo di 24 doppie preteso dal conte Andrea Secco Suardo nonostante l'alienazione fattane dalla comunità nel 1612 a favore della nobile genovese Maddalena Doria Galleani (AC Moasca, m. 1, fasc. 2, 1725-'26, Atti della comunità di M., attrice, contro il sig. conte Andrea Secho Suardi della città di Bergamo, convenuto, et conte Francesco Maria…fratello). La lite, scatenata dalla retrovendita del censo accordata dai Doria ai Secco nel 1645, si protrasse senza esito per decenni, non accordandosi le parti sull'ammontare effettivo del debito residuo (quello iniziale, per la comunità, era di 500 doppie di Spagna) e delle taglie pagate ai feudatari tra il 1709 e il '16 nei difficili anni della guerra di Successione spagnola. In particolare, tra i redditi controversi era la «cassina del zerbo», ceduta dalla comunità al conte Giulio Secco Suardo nel 1645 e ora rivendicata «pro necessitatibus et occurrentis ac pro servitio eiusdem communitatis Moasche et precipue pro suveniendis necessitatibus pauperum» [ivi, fasc. 30, Atti nella causa tra la comunità di Moasca e i conti Secco Suardi, s.d., 1750 c.ca, c. 372v]. Secondo i difensori dei Secco una motivazione «così generica…fu apposta per colorire l'interesse et intento d'alchuni particolari del luogo non poveri, ma meglio stanti», ancora indebitati con mercanti ed ebrei di Nizza.
Ma la questione della cascina contesa andava ad aprire un altro annoso problema: quello del catasto. Essa, infatti, «era in anticho dominio della comunità, come appare da' libri delli Ordinati, et…annualmente si affittava dalla medesima», ma soprattutto «era immune da' carichi, come mai stata catastrata» [ibid., c. 374]. Le 60-70 giornate di terra di sua pertinenza fruttavano annualmente 600 lire (200 in frumento, 150 per l'affitto dei prati incolti, 150 per il vino prodottovi e 100 tra marzaschi, meliga e altri cereali) che finivano nelle casse della comunità senza essere tassate. Come altrove, per chiarire la reale appartenenza del terreno in causa, si rendeva necessaria la compilazione di un catasto figurato. Non stupisce dunque il fatto che sia stata la comunità stessa, nel 1751, a supplicare le autorità centrali di poter effettuare la misurazione del territorio per risolvere sia controversie interne tra particolari sia dubbi sui confini con i paesi limitrofi [AC Moasca, m. 2, c. 1v, supplica con risposta affermativa dell'intendente Traffano del 20 maggio 1751]. Nominati i periti per la verifica dei confini con Calosso, Canelli, Agliano, Castelnuovo Calcea e San Marzano–in merito ai quali, peraltro, non sono sopravvissute testimonianze di particolari contrasti-, questa fu ultimata entro il 15 luglio dello stesso anno, ma sarebbero trascorsi ancora quattordici anni prima che l'agrimensore Carlo Giovanni Bezzo, di Incisa, potesse consegnare alla comunità il registro figurato e il libro dei registranti.
Nel frattempo, durante l'ispezione del 1753, l'intendente Traffano registrò per Moasca, «piciol luogo di 60 fuochi circa, sitoato a mezza collina, infeudato alli signori conti Secchi Suardi di Bergamo», un territorio di 1200 moggia -626 delle quali di beni feudali e immuni- così ripartito dal punto di vista colturale: «coltive 600; prative 100; vignate 500; castagnetive 0; boschive 20; gerbide 0». La produzione, essendo i terreni «per la maggior parte in pianura e valli di qualità più tosto buona, e mediocremente coltivati», consisteva prevalentemente in vino e granaglie, il surplus dei quali (rispettivamente 100 sacchi e 200 brente) veniva esportato sui mercati dell'Astigiano. Per il resto, altre risorse economiche languivano: «non v’è altra manifattura che due telari da tela di canepa» [ASTO, Camerale, Seconda Archiviazione, capo 79, Statistica generale, reg. 3, 1753, aprile 15, Relazione della Provincia d'Acqui, c. 56].
Il 22 novembre 1765 fu pubblicato il catasto in due volumi: nella premessa del misuratore Bezzo si fa riferimento all’«assistenza speciale delli signori sindaci di quel tempo [1751] Francesco Poglio et Carlo Calozzo, unitamente al signor notaio Giacomo Quaglia, segretaro di detta comunità, et al signor Pietro Giorgio Brusano…tutti deputati dal conseglio per trasportare l’estimo delli catastri più antichi a questi moderni». Si allude, dunque, a un catasto preesistente, probabilmente solo descrittivo, del quale si è persa ogni traccia, ma che funse da appoggio alle verifiche di metà Settecento. Bezzo precisò anche che «il presente territorio resta composto di 4 estimi», in base alla bontà delle pezze censite (il primo estimo equivaleva a 4 denari per staro; il secondo a 3, il terzo a 2 e il quarto a 1), e che l'estimo era calcolato in «soldi, denari, ponti e mezzo ponti» (12 punti=1 denaro; 12 denari=1 soldo; 20 soldi=1 lira di Piemonte) [AC Moasca, m. 2, c. 2]. Dalla «tavola delle contrade» posta al principio del volume figurato emergono i toponimi delle regioni in cui era suddiviso il territorio, alcuni dei quali chiaramente riferiti alle sue caratteristiche morfologiche (es; Calcinara) o colturali (Albere; Filere longhe) e molti riscontrabili ancor oggi: Zerbiolo; Prato Caretto; Moncucco; Ormea; Patri; alla Guardia; alla Famata; Ronco; Moncravello; Fontanelle; Roche; Vignali; Fornasio; Valetto; Pero Rosello; all’Indovine; bricco delle Cassine; alle Cassine; Codalonga; alle Radici; alle Filere Longhe; S. Martino; Monrubbo; Serra; Seseno; al Chiabotto; alle Rivelle; Prato comune; Spinea; Boglietto; Boldoi; Vignazza; Pian del Cuneo; Serra di Nizza; Borio; Campo delle Albere; S. Pietro; Bogliarino; Fontana; Sabbioni; Salaro; Giardino; sotto la via del gorgo; Braglia; Chiarina; Pratolongo; S; Colombano; Bricco; Rocca Bernardo; Somanzino; Pravarino; al Vignotto; Calcinara; Alesio; val di Masio; al Casone; al pedaggio; Airali; al mulino; sotto la muraglia del castello e del recinto [ivi, c. 3].
All’epoca la maggior parte del registro apparteneva ancora alla famiglia Secco Suardo, ormai nettamente divisa in due rami detentori di beni sia feudali sia allodiali. Leonino e Pietro Secco Suardo [ivi, vol. I, cc. 6-8v] possedevano 41 appezzamenti di natura feudale, dunque immuni, del valore di 372 soldi, 6 denari e 7 punti e 1/2 ed equivalenti a un’estensione 327,7 moggia. I terreni, di varia tipologia (soprattutto campo e vigna, ma anche prato, prato con canepale, bosco, orto e sedime), erano dislocati in molte delle località elencate e di dimensioni per lo più medio piccole. A una prima stima i loro beni allodiali ammontavano a 42 pezze per un totale di 133,4 moggia e un imponibile di 200 soldi, 3 denari e 10 punti; tuttavia, secondo una rettifica firmata dallo stesso Bezzo il 22 novembre 1765, dal computo andavano sottratte, almeno temporaneamente, «le moggia 44,3 trovate crescenti sovra le 6 pezze pretese da questa comunità allodiali e da detti signori conti feudali…per cui verte lite in Regia Camera» [ivi, cc. 12-14v]. In attesa del responso, dunque, i Secco avrebbero dovuto pagare solo 135 soldi e 11 denari, con notevole svantaggio per la comunità cui, come si vede, nemmeno il nuovo catasto aveva procurato una soluzione definitiva alle controversie fiscali con i conti.
Di poco inferiore era il patrimonio dei fratelli Galeazzo e Giovanni Secco Suardi e del nipote Bartolomeo: 254 soldi e 2 denari di beni feudali (38 pezze pari a 174,5 moggia) [ivi, cc. 9-11] e 76 soldi di beni allodiali (altre 38 pezze per un’estensione di 59,2 moggia) [ivi, cc. 15-17v], anch’essi equivalenti a terreni dalla tipologia colturale mista e dislocati su tutto il territorio del paese, spesso in coerenza con quelli dei cugini, quelli della parrocchiale e con la strada pubblica. Un altro nobile, il marchese Asinari di S. Marzano, deteneva beni in Moasca, ma si trattava solo di 2 pezze di bosco, una in regione Ormea, l’altra all’Indovine, catastate per 3 denari e 3 punti [ivi, c. 25].
Per il resto, il registro era ripartito tra la comunità, alcuni enti ecclesiastici e i vari particolari possidenti. La prima [ivi, c. 28] poteva contare su 62 moggia frazionate in 11 appezzamenti di uso comune del valore di 42 soldi, 10 denari, 11 punti e 1/2; si trattava di tre gerbidi (due, non a caso, in località Prato comune e uno in reg. Fontana) e di campi misti a vigneti nelle località Gerbido, Ormea, Moncucco, Ronco, Indovine e Chiabotto. La parrocchiale di S. Pietro [ivi, cc. 31v-33v] beneficiava di 27 pezze di beni immuni, compreso il sedime della chiesa e la canonica, per un tot. di 93 moggia per lo più confinanti con le proprietà dei Secco Suardo. La cappella di S. Pietro aveva 4 pezze (4,2 moggia da 3 soldi, 2 denari e 6 punti) [ivi, c. 31] e la Compagnia del SS. Sacramento un sedime immune con casa «sotto al recinto» di 0,01 moggia [ivi, c. 36v]. Alcuni appezzamenti, poi, erano registrati a nome della Commenda di S. Giorgio di Canelli (campo con vigna immune di 5 moggia in Pravarino) [ivi, c. 45v]; della parrocchiale di Castelnuovo Calcea (un prato al Boglietto non immune) [ivi, c. 49]; della Commenda di S. Bartolomeo di Nizza (5 pezze del valore di 33 soldi, non immuni) [ivi, c. 49v] e del Monastero delle Madri del Gesù di Asti (2 prati non immuni del valore di 1 soldo, 6 denari e 10 punti) [ivi, c. 64].
Tra i principali registranti, invece, spiccano i cognomi delle famiglie Barbotto, Calosso, (della) Fiore, Loazzolo, Quaglia, Poglio e Scaglione, per alcune delle quali si può osservare la tendenza alla concentrazione fondiaria in determinate zone (i Fiore all’Ormea, i Calosso in Val di Masio), ma sempre con appezzamenti di modesta entità (massimo 4 stara ciascuna). Non mancava qualche registrante originario di paesi vicini, come i Traversa di Castelnuovo Calcea, qualche nicese e qualche abitante di S. Marzano. Tuttavia, negli anni immediatamente successivi alla redazione del catasto, a crescere ancora furono i beni feudali dei Secco Suardo: secondo una postilla facente riferimento a un atto di convenzione del 19 dicembre 1779, alla fine di quell’anno Leonino e Pietro avevano incrementato il proprio patrimonio da 372 a 410 soldi, con l’acquisizione di circa 30 moggia in più di terreni [ivi, vol. I, c. 8v].
Per registrare questa e altre variazioni, già dal 1769 era stato iniziato un Registro delle mutazioni [ivi, m. 1, fasc. 10] aggiornato fino alla metà del XIX secolo. Il dato principale che se ne ricava, oltre all’adozione della lira di Piemonte per il computo del valore degli appezzamenti, è il passaggio dei beni accumulati nei secoli dai Secco Suardo al marchese Chanaz de Saint Amour, che cominciò ad acquistarli nel 1790. Alla fine del ’96 [ivi, c. 8], egli risultava proprietario di ben 358 moggia di terra già appartenute ad Andrea Secco e di altre 174,5 comperate da Girolamo Secco nel ’91, per un tot. di 533,2 moggia di beni feudali immuni equivalenti a £ 33,14, ai quali andavano aggiunte altre 170,6 moggia di beni allodiali del valore di £ 12,10, anch’esse acquistate dai Secco e da qualche altro particolare. Mentre il resto del territorio moaschese, complici le vicende napoleoniche e la tendenza al frazionamento delle campagne innescata nella seconda metà del Settecento dall’incremento della coltura della vite [Zangheri, 1980, p. 65], continuava a venir frammentato in piccole porzioni, gli Chanaz restarono a lungo i principali registranti giungendo a possedere, nel 1838, ben 46,13 lire di registro [AC Moasca, m. 1, fasc. 10, cc. 147v-148].
Dal punto di vista economico, a inizio Ottocento Moasca risultava «fertilissimo in biade, vini ed in tutti gli altri prodotti», nonché, grazie al terreno calcareo, buon produttore di gesso. Il vino, specie nella varietà del nebbiolo, veniva venduto soprattutto nel Novarese, a Cuneo e Torino [Casalis, p. 403]. Per il resto, secondo il critico osservatore De Canis, «la terra non aveva niente d'osservabile, come pure la parrocchia che è meschina; il solo che meritasse attenzione era il castello» [Bordone, 1977, p. 151]. Le vicende di quest'ultimo – più volte rimaneggiato, oggetto dell'interesse di D'Andrade per un eventuale ricupero, ma poi abbandonato a uno sfacelo cui solo attualmente si sta ponendo rimedio [Scheda Moasca; Maderna, in corso di stampa] – paiono riflettere le sorti stesse della piccola comunità, caratterizzata da un andamento demografico simile a quello dei paesi limitrofi di più modeste proporzioni.
Si è visto che, secondo un documento del 1591, Moasca aveva allora 189 abitanti. Dalla visita pastorale di mons. Roero del 1728 si evince che il paese, nonostante il possibile calo della prima metà del Seicento, si era notevolmente accresciuto, contando 560 anime, 288 delle quali in età da comunione [ACVAT, Copia delle relazioni delle visite pastorali di mons. Roero, 1728, ivi, scat. 5, fasc. 2, cc. 43v-45]. I censimenti otto-novecenteschi danno conto di incrementi e flessioni meno drastici ma pur sempre sensibili. Nel 1839 Moasca, facente capo al mandamento di Canelli, Provincia di Asti e Divisione di Alessandria, contava 411 ab. ripartiti in 84 nuclei familiari [Informazioni statistiche, 1839, p. 27], saliti a 434 nel 1848 [Informazioni statistiche, 1852, p. 2; 89 famiglie]. Il trend positivo continuò fino a inizio Novecento: nel 1881 il paese aveva 585 ab. legalmente residenti (577 effettivi, 264 dei quali agglomerati e 313 in case sparse non altrimenti segnalate) [Censimento, 1881, p. 7], aumentati a 907 secondo i dati del 1901 (307 agglomerati, 601 sparsi) [Censimento, 1902, p. 7]. Nel 1911 essi erano scesi a 874 -dei quali 411 residenti nel concentrico e 463 in case sparse [Censimento 1912]- e pochi anni dopo a 703, ripartiti tra il nucleo del paese (207) e le regioni Annunziata, Burio e Cascine (rispettivamente 190, 153 e 230), non più indicate come semplici case sparse [Censimento 1914]. All’incremento del 1921 –910 ab. legalmente residenti e 886 effettivi [Censimento 1921, p. 16]- fece seguito la contrazione del decennio successivo (759 ab. nel 1931) durante il quale il Comune di Moasca era stato sciolto e annesso a quello di San Marzano (Oliveto) con il nome di S. Marzano Moasca [cfr. voc ‘Mutamenti di distrettuazione’ e Censimento 1933, p. 37]. Gli effetti dell’unione, realizzata nell’ambito degli accorpamenti territoriali concepiti dal regime fascista al fine di semplificare la gestione amministrativa provinciale e regionale, ma lesiva dei processi di formazione comunale avviati nel Medioevo, restano da studiare, sia in relazione alla dispersione documentaria che ne derivò sia in merito ai rapporti tra le due comunità raggruppate. In ogni caso, la popolazione moaschese continuò a decrescere: da 723 unità nel 1937 [Censimento 1937] a 703 nel ’51, quattro anni dopo la riacquisizione dell’autonomia comunale [Censimento 1955, secondo il quale 207 ab. erano residenti in paese, 385 in case sparse e i restanti divisi tra le regioni Annunziata, Burio e Cascine]. Il calo maggiore si ebbe negli anni Sessanta-Settanta (3-400 unità o poco più), a causa della meccanizzazione dell’agricoltura, dell’incremento delle attività industriali e della conseguente emigrazione, diretta per lo più ai principali centri vicini (Canelli, Nizza, Asti).
Secondo il censimento ISTAT del 2001 il paese aveva 401 abitanti, 47 dei quali residenti in case sparse, 36 in reg. Annunziata, 32 in reg. Cascine e 15 in reg. Burio. L'ultimo rilevamento del luglio 2004 fa registrare un lieve incremento (422 ab. complessivi). La produzione vitivinicola, tuttora maggioritaria rispetto ad altre attività economiche, e l'inserimento del Comune tra i membri della Comunità collinare "Tra Langa e Monferrato" stanno dando impulso anche a iniziative di stampo enogastronomico e culturale che vanno conferendo a Moasca nuova visibilità in seno alla Provincia di Asti.