Novara

AutoriColombo, Emanuele
Anno Compilazione2008
Anno RevisioneVersione provvisoria
Provincia
Novara.
Area storica
Novarese.
Abitanti
100.910 (48.118 M, 52.792 F, dati Istat censimento 2001).
Estensione
102,99 kmq.
Confini
Caltignaga, Cameri, Casalino, Galliate, Garbagna Novarese, Granozzo con Monticello, Nibbiola, Romentino, San Pietro Mosezzo, Trecate.
Frazioni
La delibera n. 358 del consiglio comunale del 31/5/1974, con oggetto “suddivisione di Novara in sezioni territoriali” individua all’interno della città 22 sezioni, in base ad alcuni parametri di base (omogeneità territoriale; previsioni del P.R.G.; servizi; esistenza di centri di raccolta dei cittadini; rispetto dei confini naturali). Le sezioni formano tredici quartieri o frazioni: centro, S. Andrea, S. Rocco, S. Agabio, Porta Mortara, Sacro Cuore, S. Martino, S. Rita, S. Antonio, Vignale, Veveri, Bicocca, Cittadella-Villaggio Dalmazia, S. Paolo-zona Agogna e in otto frazioni: Pernate, Olengo, Torrion Quartara, Lumellogno, Pagliate, Casalgiate, Gionzana, Agognate.
Toponimo storico
Varie le ipotesi sull’origine del toponimo. Secondo alcuni deriverebbe da una contrazione della locuzione latina Nova cereris ara. Un’altra ipotesi, riportata dal Bianchini, vuole che derivi dal nome del vicino fiume Agogna, che anticamente si sarebbe chiamato Novaria. Secondo Guido Ferrari il toponimo “Novaria” è da riferirsi alla fondazione da parte dei Liguri [Bianchini, pp. 12-13].
Diocesi
Diocesi
Novara è sede vescovile almeno a partire dagli anni Trenta-Sessanta del secolo V [Montanari, Una terra tra due fiumi, p. 50]. Secondo il Cognasso una signoria feudale episcopale era cominciata già nel IX secolo, ma questa ipotesi di lettura è stata in seguito rivista [Montanari, Una terra tra due fiumi, p. 61].
In ogni caso, è con il vescovo Adalgiso, un nobile franco legato alla corte carolingia, che ha inizio l’espansione territoriale del vescovo. Nel IX secolo, Adalgiso cambia la dedicazione dell’antica basilica da Pietro e Paolo a Gaudenzio, facendo erigere una canonica per il culto del santo; in tal modo, vengono a esistere a Novara due capitoli, quello della cattedrale di S. Maria (dotato di 40 canonici) e quello extra muros di Gaudenzio (20 canonici). I diritti territoriali dell’episcopo hanno inizialmente un carattere immunitario, esonerando i suoi possedimenti dal pagamento di tributi pretesi a vario titolo dai rappresentanti del potere pubblico. Successivamente, questo diritto si approfondisce divenendo defensio, e cioè unione sotto un medesimo titolo dell’immunità fiscale e giudiziaria. A Novara il primo diploma di defensio dell’episcopato è emanato dall’imperatore Lotario nell’840, e rendeva immuni tutte le proprietà della diocesi. Nel 911 il re d’Italia Berengario I rilasciava l’immunità negativa ai beni della diocesi (divieto di entrata ai funzionari regi) [Andenna, Diocesi di Novara 2007, p. 71; Baroni; Lizier, Episcopato] e ne confermava alcune importanti proprietà, fra cui quelle a S. Giulio d’Orta. Col diploma del 919 rilasciato sempre da Berengario, il vescovo ottiene l’importante diritto di tenere una grande fiera e un mercato settimanale in città e una fiera anch’essa annuale a Gozzano. Tra il 969 e il 972 il vescovo Aupaldo ottiene da Ottone I la giurisdizione e il diritto di districtus (potere di coercizione sugli uomini liberi) sulla città e su una fascia di territorio contiguo per tre miglia. In un successivo diploma del 1014 concesso a Pavia, l’imperatore confermò gli importanti privilegi della chiesa novarese e nello stesso anno concesse al vescovo parte della Val d’Ossola (detto comitatulus), l’alveo del Ticino, e gli restituì la pieve di Trecate e la corte di Gravellona che gli erano state sottratte in precedenza con la forza. Le maggiori concessioni datano però 10 giugno del 1025, allorché l’imperatore Corrado II conferì alla chiesa novarese tutti i possedimenti confiscati ai conti di Pombia: il comitato di Pombia, l’Ossola, la corte di Vespolate, i castelli di Vilengo e Cureggio, due mansi in Garbagna, la piccola corte di Cavallirio e vari possedimenti sparsi in Valsesia e attorno alla città e al lago d’Orta, nonché l’abbazia di S. Felice di Pavia. In tal modo, la sede episcopale diventava una delle più ricche dell’Italia settentrionale e riusciva ad aggregare la maggior parte del territorio novarese (tanto che nei documenti si inizia a parlare di “comitato di Novara”).
I secoli successivi vedono lo scontro tra vescovo e comune, con la perdita della diocesi di gran parte dei suoi possedimenti territoriali [Virgili]. L’intitolazione di Giovanni Visconti, dal 1331 vescovo di Novara e poi signore di Milano è rivelatrice in proposito, poiché egli si firma Novariae et districtus eiusdem dominus nei suoi atti politici mentre in qualità di vescovo ricorre per la Riviera d’Orta e per l’Ossola alla formula di episcopus et comes, facendo intendere che in quest’ultimo caso il suo potere deriva dall’essere titolare della diocesi mentre per quanto riguarda Novara e contado proviene dalla sua signoria [Cadili].
Nel periodo successivo, la nomina del vescovo fu strettamente di nomina pontificia: dei 16 vescovi che si succedettero in diocesi tra 1388 e 1552 nessuno era novarese [Somaini]. Le sue caratteristiche peculiari di vescovo-principe tuttavia continuarono, tanto che il presule novarese rimase signore territoriale dell’Ossola Superiore fino al 1422, e soprattutto di Gozzano e della Riviera d’Orta. La Riviera restò feudo imperiale per tutta l’età moderna, in base ai privilegi emanati più volte nel corso del Medioevo da diversi imperatori e per l’ultima volta da Carlo V nel 1529, riuscendo a conservare la giurisdizione separata sia all’interno dello Stato di Milano sia in seguito sotto i Savoia. La cessione dei diritti feudali e giurisdizionali da parte del vescovo avvenne infatti ufficialmente solo nel 1817, senza che il settecentesco processo di perequazione li intaccasse [Stoppa, Cultura e chiesa; ASTO, Paesi Nuovo Acquisto, Riviera d’Orta; ASM, Feudi Imperiali, 576; e soprattutto ASDN, serie XV].
A partire dal 1738, col passaggio al Regno di Sardegna, la nomina dei vescovi viene a dipendere strettamente dall’approvazione regia, il che ha l’effetto di “piemontesizzare” l’episcopato, che viene assegnato a esponenti di alcune grandi famiglie sabaude [Guenzi].
Pieve
Con l’aggregazione di una serie di comunità limitrofe nel periodo napoleonico [v. mutamenti territoriali], Novara eredita una serie di parrocchie dipendenti dal punto di vista ecclesiastico da altri vicariati, e precisamente: Lumellogno e Pagliate, vicariato di Cameriano; Isarno, vicariato di Caltignaga; Pernate, vicariato di Trecate; Olengo, vicariato di Vespolate; Agognate, Casalgiate e Gionzana, vicariato di Mosezzo [Bascapè].
Altre Presenze Ecclesiastiche
Altre presenze ecclesiastiche
Particolarmente ricca è la presenza in città di enti ecclesiastici e religiosi di vario tipo, quali chiese, monasteri femminili e maschili, ospedali, oltre a due capitoli canonicali di antica fondazione in costante conflitto tra loro. I cambiamenti della geografia ecclesiastica della città furono particolarmente violenti, per ragioni diverse, in due occasioni: quando s’intrapresero le opere per le fortificazioni cittadine nella seconda metà del Cinquecento, con una ripresa dei lavori a metà Seicento, che comportarono la distruzione e (quasi sempre) lo spostamento entro le mura delle istituzioni situate nei sobborghi [Pruno, Piccoli], e nel periodo napoleonico a causa delle soppressioni di svariati enti, in particolare monasteri. Ciò che esce da un’analisi storica è, in generale e prescindendo anche dalle fasi più acute, un estremo sommovimento del tessuto ecclesiastico, in cui si verificano continue modificazioni degli enti. L’aggregazione tra monasteri, il trasferimento dei titoli parrocchiali, la fusione tra chiese diverse sono probabilmente gli elementi più evidenti in tal senso (ma non certo gli unici) e avvengono con un ritmo incessante, rendendo l’analisi piuttosto complicata. Risulta così impossibile capire la storia anche solo di un’istituzione religiosa senza inserirla nel contesto urbano, all’interno delle relazioni con quegli altri enti che più l’hanno influenzata.
Nonostante l’estrema complessità del tessuto ecclesiastico, è possibile seguire con un certo dettaglio la vita delle istituzioni religiose della città grazie anzitutto alla raccolta dell’erudito ottocentesco Carlo Francesco Frasconi [su cui si vedano Carlo Francesco Frasconi. Erudito paleografo; e Longo, Tra archivi e storia], recentemente edita anche dal “Bollettino storico per la provincia di Novara” [Documenti riguardanti le chiese, monisteri, conventi e spedali già esistenti in Novara e suoi sobborghi da’ più rimoti secoli sino al primo decennio del corrente XIX], opportunamente integrata dalle visite pastorali e da alcuni lavori più recenti, come la ricostruzione di Barlassina e Picconi sulle chiese di Novara del 1933. I problemi di tassonomia posti da un tale conglomerato di istituti, ai fini di una ricostruzione interpretativa oltre che esplicativa, sono però notevoli. Il Frasconi adotta nel suo testo una semplice classificazione alfabetica, cui fa seguire un indice per soggetti che ordina gli enti secondo queste tipologie: chiese e conventi di Novara e sobborghi; confraternite; ospedali; ordini regolari presenti in Novara; enti religiosi esterni (residenti cioè in altre comunità ma con un’installazione in Novara). Qui si è scelto di ordinare, per quanto possibile, gli istituti per “luogo”, essendo impossibile produrre da un lato strumenti di indicizzazioni per tipologie e dall’altro una mappa delle ubicazioni di carattere topografico. Il sottinteso di fondo è che la costruzione del tessuto religioso locale obbedisce in maniera stringente all’assetto insediativo della città e delle sue frazioni.
Due altre questioni sono di non poco conto. Anzitutto, la grande varietà degli enti religiosi e delle relative loro funzioni pone la necessità di fissare un criterio per stabilire ciò che è ecclesiastico e ciò che non lo è. Il problema riguarda, in particolare, le opere pie, che in età moderna e medioevale sono chiaramente riconoscibili come enti religiosi e talora anche ecclesiastici (perlopiù attraverso lo strumento del beneficio con obbligo di carità), ma che, per effetto delle leggi sabaude e napoleoniche prima e crispine poi, diventano di carattere laicale se non “para-statale” in epoca più recente. Stante l’indubbia origine religiosa di questi istituti, si è deciso qui di utilizzare un criterio il più possibile allargato: dal che ne consegue però anche la necessità di una sezione in cui si spiega la struttura caritativa della città.
Terzo problema è l’affastellamento, che riguarda pressoché ogni istituzione, di notizie di carattere molto diverso: architettonico, archivistico-erudito, giurisdizionale, economico, sociale, etc., e che in un caso, come questo, in cui vi sia grande abbondanza di enti, pone difficoltà di sintesi e di scelta delle informazioni. In questa sede, si è deciso di privilegiare gli aspetti più propriamente “istituzionali” (radicamento sul territorio, diritti, proiezione entro lo spazio cittadino, etc.), cercando di fornire l’evoluzione cronologica pur sintetica degli enti in questione. Un problema aperto è quello dei benefici, spesso ingenti, che erano eretti presso le istituzioni cittadine, e la cui ricostruzione (anzitutto per motivi di spazio, oltre che di limiti della ricerca) si presenta piuttosto improba. Si è tuttavia ritenuto di far fronte almeno in parte alla questione, fornendo un quadro dei benefici per le istituzioni principali, e cioè per la cattedrale e per la basilica di S. Gaudenzio, che hanno rappresentato fin dall’alto Medioevo una delle principali forme d’espressione della società locale. I benefici, ancor più di altri elementi pur molto significativi (come la disposizione e la proprietà dei banchi in chiesa, la composizione del capitolo, etc.), rappresentano il contenuto più importante di questa forma d’espressione, oltre a intrecciarsi in maniera significativa con la creazione/gestione delle opere pie e di tutto il mondo della carità in genere, tanto da essere considerati nel periodo post-unitario “corpi morali” al pari delle altre opere.
Sempre relativamente a questo punto, vi è poi la questione degli enti ecclesiastici scomparsi, presenti magari solo in una attestazione o poco più. Qui si sono ritenuti in linea di massima censibili gli istituti che presentassero una continuità documentaria e che fossero dunque rintracciabili chiaramente all’interno dello spazio urbano.
Duomo (basilica di S. Maria), risalente probabilmente all’VIII secolo, fu ricostruito tra 1863 e 1869 su progetto di Alessandro Antonelli, protagonista del rifacimento architettonico della città in quel periodo [Il secolo di Antonelli; Dell’Omo; Vinardi]. I canonici del capitolo erano 32, ridotti a 13 in epoca napoleonica [per il tardo Medioevo cfr. Zucco]. Imponente era la massa beneficiale della cattedrale. Al tempo della visita del Morozzo, nel 1819, molti benefici non risultavano officiati in quanto aboliti o sospesi durante il periodo pre-napoleonico. Si contavano in totale 47 titoli, eretti presso vari altari [Nota dei benefici, cappellanie, o legati in cattedrale, Vp, 363, 1819, ff. 141-148].
All’altare di S. Agabio erano censiti il beneficio di S. Anna, la cappellania di S. Agabio, di S. Maria Maggiore e di S. Agabio, della cattedra di S. Pietro, di S. Ausenzio, di S. Vincenzo, di S. Tommaso di Cantauria, di S. Maria Egiziaca (un tempo a carico dei Tornielli di Barengo e poi venduto alla famiglia Negri “ma non si sa con quali patti”). All’altare della Beata Vergine del Riscatto vi erano la cappellania della Beata Vergine della Consolazione e un’altra dello stesso titolo, le cui “messe erano a carico della compagnia eretta in detta capella della cattedrale. Essa, fin che è sussistita ha soddisfatto in tutto fino all’anno 1802. Abolita, ed uniti i redditi all’Ospital grande, tutto è rimasto inadempiuto”. All’altare di S. Giuseppe “vi sono molti obblighi di messe, parte della compagnia che ivi era eretta, i di cui beni ora sono ancora uniti all’Ospital grande […]; parte dello stesso Ospitale, e parte dell’Ospitale di S. Giuliano”. Si trattava in totale di quattro cappellanie, cinque legati (Mantica, Magnus, Gualtreri, Crivelli, Fassi) che erano a carico della compagnia di S. Giuseppe da cui si era formata una cappellania passata in gestione all’ospedale, e il legato Ferrante Nazzari amministrato dallo stesso Ospedale di S. Michele. Vi erano inoltre due legati amministrati dall’Ospedale di S. Giuliano e, infine, il legato Pallavicini. All’altare di S. Gaetano erano erette due cappellanie, dei santi Cosma e Damiano e di S. Gaetano, quest’ultima di patronato della famiglia Rastrelli di Castellazzo. All’altare di S. Caterina erano erette sette cappellanie (di Santa Caterina, dei SS. Filippo e Giacomo, di S. Andrea, dei SS. Giacomo e Antonio, di S. Biagio, di S. Francesco, di S. Giuseppe), con molti disordini di gestione. Quella di S. Giuseppe, ad esempio, beneficiata per ben 260 messe annue, non voleva essere onorata dal tuo titolare, “sul vanissimo pretesto di dir le messe altrove, che è il solito pretesto di chi vuol lucrare. Difatti si trova che questo stesso titolato ha celebrate varie altre messe in cattedrale, di un altro beneficio”. All’altare di S. Benedetto vi erano la cappellania di S. Benedetto, soddisfatta per mezzo del legato Trivolzio, consistente in beni a Vespolate, i legati Cerchietti e Alberto Tornielli gestiti dall’Ospedale di S. Michele, il legato Ferini dell’Ospedale di S. Giuliano, un altro legato spettante alla compagnia di S. Giovanni Decollato, una “messa quotidiana a carico della città di Novara per la causa nominata negli Statuti”, i legati Moroni e Martinelli a carico dei parroci della cattedrale, il legato Riboldazzi prima a carico della compagnia dell’Immacolata in S. Francesco (nel 1819 non più esistente perché la compagnia era stata abolita in periodo napoleonico e i beni “demaniati”), il legato del canonico Giuseppe Prina, il legato Dolce (a carico del tesoriere della cattedrale), il beneficio della Madonna della Bicocca, un legato di 24 messe a carico del prefetto, e infine la cappellania di S. Giuseppe e Benedetto sorretta da un legato Rossi. All’altare del SS.mo Sacramento stavano un legato amministrato dalla confraternita del SS.mo Sacramento, la cappellania di S. Stefano e quella della Beata vergine della Cintura, “beneficio considerabile e di patronato olim della famiglia Parisi, ora finita”.
Basilica di S. Gaudenzio, situata in origine appena fuori le mura occidentali della città, dove venne edificata probabilmente nell’VIII secolo, fu distrutta nel 1553 per le fortificazioni nonostante le suppliche rivolte dalla città al Senato milanese. La ricostruzione intra muros iniziò nel 1557 e finì definitivamente solo nel 1659.
La dotazione beneficiale di S. Gaudenzio era ancora più numerosa di quella della cattedrale, con la presenza di ben 62 titoli nel 1819, distribuiti su vari altari. Dodici di essi risultavano però “demaniati” (fra cui cinque cappellanie che erano godute dal capitolo e altre sei dalla compagnia della Beata Vergine del Suffragio). Fra gli altri, 14 tra legati, canonicati e cappellanie erano amministrati dal capitolo, tre dalla fabbrica lapidea di S. Gaudenzio, due dal corpo dei decurioni novaresi, cinque dalla famiglia Caccia Dominioni, due dalla famiglia Avogadro, due dai Cacciapiatti, due dalla famiglia Solari Caccia [Elenco de Benefici e legati con obbligo di messe nella chiesa di S. Gaudenzio di Novara coll’indicazione dei rispettivi fondatori, patroni, e possessori, Vp, 364, ff. 109-113].
Altre chiese e monasteri della città:
Parrocchiale di S. Vincenzo, un tempo basilica, il primo documento risale al 1018. Era di giuspatronato della famiglia Maggi. Nel 1553 vi fu trasferito il corpo di S. Gaudenzio stante la distruzione della basilica fuori delle mura. Demolita S. Vincenzo vi si costruì la nuova basilica di S. Gaudenzio.
Monastero di S. Agata, convento femminile nella contrada di S. Agata, fondato prima del 1245. In origine faceva parte dell’ordine degli Umiliati, poi a partire dal 1514 dell’ordine di S. Agostino dei canonici regolari della Congregazione Lateranense, residenti nella chiesa di S. Maria delle Grazie nel sobborgo di S. Gaudenzio. Nel 1407 vi viene unito il Monastero delle Umiliate di S. Giovanni Battista, che sorgeva all’Ortello, dove cioè “intendevasi anticamente quel sito che ora occupa la piazza detta del Castello e contenea altresì quello spazio di terreno entro cui fu in appresso costrutto il castello medesimo” [Frasconi, Documenti] (in precedenza, era lo spazio compreso tra il palazzo vescovile e le mura aderenti al sobborgo di S. Gaudenzio). Nel 1782 il vescovo Balbis Bertone aggrega a S. Agata il monastero di S. Bartolomeo di Momo. Nel 1805 viene aggregato anche il monastero dei SS. Ippolito e Cassiano di Mortara, dello stesso ordine. Il 10/5/1810 venne sciolto dal governo napoleonico.
Monastero di S. Chiara, agostiniani dell’osservanza, sotto la parrocchia di S. Vittore e poi di S. Gaudenzio. Fondato nel 1453. Nel 1638 vi furono aggregate le monache umiliate di S. Maria Annunziata delle Caselle, residenti nel sobborgo di S. Maria nella regione delle “Caselle”. L’unione faceva capo alla demolizione del monastero dell’Annunziata nel 1553 per la costruzione delle fortificazioni. Le monache avevano allora riparato in una casa attigua a S. Chiara, mantenendo però la loro denominazione. Rimaste solo in cinque, il vescovo Odescalchi aveva deciso per l’aggregazione. Nel 1665 fu unita a S. Chiara la chiesa di S. Silvestro, dato che minacciava rovina. Nel 1800, le monache si trasferirono nel monastero di S. Agnese. La soppressione seguì col decreto napoleonico del 10/5/1810.
Monastero poi chiesa di S. Croce, prepositura degli Umiliati, fondato nel XII sec. nel quartiere cittadella, ma poi rientrante entro le mura con le nuove fortificazioni. Nel 1570, in seguito allo scioglimento degli Umiliati, buona parte dei redditi della prepositura passò al Collegio elvetico di Milano. Nel 1583 sappiamo che la chiesa di S. Croce era considerata parrocchiale, e vi venne trasferita la confraternita della Santa Croce, che in precedenza esercitava nella chiesa di S. Tommaso di Canterbury. Perché non compresa nel decreto del vescovo Melano del 21/2/1806 fra le quattro parrocchiali urbane o sussidiarie, fu chiusa alle ecclesiastiche funzioni.
Parrocchia di S. Tommaso Canterbury, borgo di S. Maria (non più esistente).
Monastero e chiesa della Visitazione di Maria Vergine a S. Elisabetta, monache cappuccine, sito alle “case nuove” vicino all’Ospedal Maggiore, venne fondato da Giambattista Leopardi con un legato da lui disposto, ufficialmente inaugurato nel 1626. La regola era stata derivata dal monastero di S. Barbara di Milano, da cui erano uscite due “religiose e si sono prestate a questo monastero di Novara come prime fondatrici del medesimo”. Già nel 1801 la municipalità intimava alle cappuccine di trasferirsi in altri monasteri piemontesi; ritardata la loro partenza, il monastero fu però soppresso nel 1810.
Parrocchia di S. Nicolò, già esistente a metà XII secolo, situata accanto a Palazzo Bellini. Il 10/6/1657 fu insignita del titolo di prepositura dal vescovo Odescalchi. Fu chiusa con il decreto del vescovo Melano del 21/2/1806. Presso la parrocchiale esisteva anche un monastero di umiliate altresì detto di S. Nicolò, confluito già in età medioevale in quello di S. Barbara.
Parrocchia di S. Matteo, di giuspatronato dei Tornielli di Vergano, Barengo e dell’Ortello, nonché dell’Ospedale di S. Michele e del capitolo della cattedrale in quanto eredi di alcuni rami della famiglia. Il primo documento, attestato dal Frasconi, è del 1154. Nel 1591 la chiesa di S. Marco (il cui primo documento risale al 1220), vi viene trasferita con la cura di anime (soltanto 19). Nel 1604 il Bascapè introdusse in Novara i barnabiti, che ottennero dai Tornielli l’uso della chiesa di S. Marco con l’orto e il cimitero annessi. Nel 1607 si pose la prima pietra della nuova chiesa di S. Marco. Nel 1691 il vescovo Giambattista Visconti inaugurò la nuova chiesa, con l’intitolazione ai SS. Paolo e Marco. Il decreto del 21/2/1806 del vescovo Melano la esclude dalle quattro parrocchie cittadine e la chiude. Nel 1821 fu però riunita dal vescovo Giuseppe Morozzo alla chiesa di S. Marco con il nome di SS. Matteo e Marco e l’edificio di S. Matteo fu ridotto ad abitazione parrocchiale. Nel 1840 l’uso della chiesa venne concesso agli Oblati di SS. Gaudenzio e Carlo, che la lasciarono nel 1916.
Monastero e chiesa di S. Agnese, anticamente detto di S. Domenico, convento femminile “attestante da mattina ai baluardi della città”, presso Porta Nuova nella parrocchia di S. Eufemia. Esistente già nel XII secolo, era anticamente dedicato a S. Domenico passando alla nuova intitolazione con la costruzione della chiesa, in cui l’altare era dedicato alla Santa. La prima volta che compare la nuova attestazione è il 1625. Venne soppresso il 10/5/1810.
Chiesa di S. Orsola, con annesso Collegio di vergini della congregazione di S. Orsola, fondato da Giambattista Boniperti nella seconda metà del XVI sec. e sito nella parrocchia di S. Eufemia. Al primo ingresso delle truppe francesi ospitò le orsoline di Galliate, ma venne soppresso nel 1810.
Chiesa di S. Siro, di fondazione quattrocentesca, sita tra la cattedrale ed il vescovado, luogo di riunione della congregazione dei battuti di S. Giuliano detti poi di S. Giovanni Decollato. Nel Cinquecento il capitolo convertì la chiesa ad uso di sagrestia e concesse il battistero ai disciplini, la cui confraternita assunse il nome di S. Giovanni Battista alle Fonti. Nel 1578 la compagnia aderì all’arciconfraternita di S. Giovanni Decollato di Roma. Nel 1579 Ottavio Farnese aveva concesso alla confraternita, che aveva la cura dei condannati, il privilegio di poter liberare un condannato a morte all’anno, privilegio poi confermato da Filippo IV nel 1625 (si trattava di un diritto effettivamente esercitato: la prima liberazione venne effettuata nel 1580, l’ultima nel 1731). Nel 1636 ottennero di poter erigere una chiesa intitolata a S. Giovanni Decollato, che fu terminata nel 1643 [L’oratorio di San Siro; Longo, Penitenti e battuti].
Monastero e chiesa di S. Francesco, nella parrocchia di S. Pietro de Civitate. I frati minori risiedevano in precedenza in un monastero nel borgo di S. Luca, distrutto totalmente nel 1357 nel corso della difesa della città. Nel 1359 avvenne la traslazione al luogo detto “guasto dei cavallazzi” dove fu eretto il monastero di S. Francesco. Soppresso il 10/5/1810, fu trasformato per un certo periodo in magazzino militare e quindi in abitazione civile.
Anticamente, esisteva una basilica dei SS. Pietro e Paolo in S. Agabio, consacrata addirittura nel 489 da Onorato VII, di cui si perdono le tracce in età medioevale. Più tardi sempre in S. Agabio troviamo invece l’esistenza di una parrocchiale di S. Pietro Apostolo, esistente dal XII secolo fino al 1322. In seguito il titolo parrocchiale fu trasferito alla chiesa di S. Pietro apostolo detto de civitate.
Parrocchia di S. Pietro apostolo detto de civitate, eretta probabilmente nel XIV secolo entro le mura nella regione allora detta “in passafango”. Nel 1811, assieme all’annesso oratorio appartenente alla confraternita del Sacro Monte di pietà, venne chiusa, e il Monte di pietà concentrato con l’ospedale. Il parroco di S. Pietro si trasferì alla chiesa di S. Maria in Galardo eleggendola a sua sede, dopo che quest’ultima era rimasta vacante. Per un certo periodo, negli anni successivi pare che fosse utilizzata come teatro. Riacquistata nel 1906, veniva riaperta al culto nel 1908 sotto l’intitolazione di S. Luigi (il consorzio di S. Luigi era stato eretto dal vescovo Morozzo il 17/4/1826 e risiedeva originariamente nella chiesa di S. Filippo al Carmine).
Parrocchia di S. Eufemia, presente almeno dal XII secolo e situata presso le mura a sud, aveva giurisdizione sulla zona della Bicocca e su parte della città. Venne distrutta una prima volta a metà Cinquecento per le fortificazioni e ricostruita, e di nuovo rifatta tra 1666 e 1698. Fino a metà XVI secolo era officiata dalla confraternita di S. Defendente, che nel 1586 ottenne l’aggregazione all’arciconfraternita della Santissima Trinità del sussidio dei pellegrini di Roma, adottando anch’essa tale denominazione. La confraternita della SS.ma Trinità venne poi soppressa nel 1801.
Spedale dei Pellegrini, fondato e gestito dalla confraternita della Santissima Trinità eretta nella chiesa di S. Eufemia. Resistette fino all’epoca napoleonica, quando venne soppresso assieme alla confraternita.
Chiesa di SS. Ambrogio e Maurizio, di giurisdizione del capitolo della cattedrale, situata nel portico dei mercanti, eretta nel 1091, vide la sua fine nel 1592 quando si decise di sconsacrarla e venderla “per essere troppo umida e ristretta tra botteghe e case di laici” e con il ricavato si ornò una cappella di S. Giovanni Battista, cui fu trasferito il titolo di S. Ambrogio.
Parrocchia di S. Giacomo, esistente un tempo accanto alla chiesa della SS.ma Trinità-S. Maria del Monserrato. Rimontante al XII secolo, nel 1691 il vescovo Giambattista Visconti l’aggregava alla Congregazione degli Oblati di S. Cristina, con l’obbligo di esercirvi le funzioni parrocchiali, a causa della vacanza della sede. Fu sciolta dal vescovo Balbis Bertone il 20/10/1782, che ne trasferì il titolo alla chiesa di S. Carlo, e l’edificio ridotto ad abitazione civile.
Parrocchia di S. Giorgio, esistente già nel XI secolo e situata nella contrada di Porta S. Gaudenzio, di giuspatronato della famiglia Pallavicini, fu ceduta con il loro consenso alla confraternita del Santo Spirito nel 1647, ma venne demolita nel 1652 perché minacciava rovina. Fu concesso però alla confraternita di edificarvi una nuova chiesa. Sciolta la confraternita in periodo napoleonico, la chiesa venne venduta dal demanio. I confratelli furono ripristinati sotto il titolo del Santissimo Sacramento presso la chiesa di S. Marco.
Oratorio di S. Leonardo, di proprietà della confraternita di S. Dionigi detta anche di S. Maria del Gonfalone, confraternita poi trasferita alla chiesa della SS. ma Trinità nel 1590. Nel 1614 è sconsacrato e venduto a un privato.
Convento con chiesa annessa di S. Nicola di Tolentino, esistente un tempo presso la piazza di S. Nicola, faceva parte dell’ordine degli agostiniani detti dell’osservanza. Se ne ignora la data di costituzione ma era già presente nel Cinquecento. Il convento fu soppresso il 20/2/1798 e i frati assegnati ad altri monasteri piemontesi.
Parrocchia di S. Gabriele della Baraggia, di giuspatronato del capitolo della cattedrale. Anticamente la baraggia comprendeva la regione del borgo di S. Maria detta poi Bicocca, oltre al territorio omonimo. Ultima attestazione fine ‘400.
Monache di S. Bartolommeo di Vallombrosa, presso il luogo chiamato Fons botonis, presente fin dal 1124, e soppresso il 27/4/1792 essendosi ridotto il capitolo ad appena due monaci.
Chiesa di S. Bartolomeo, sita nel sobborgo di S. Gaudenzio e sede della confraternita che da essa prende nome, poi fusa con quella di S. Spirito esistente nello stesso borgo. Nel 1635 venne demolita per ampliare le mura, ragion per cui la confraternita riparò a S. Gottardo, chiesa attigua alla porta di S. Gaudenzio.
Chiesa di S. Lucia, sita in S. Agabio, con annesso orfanotrofio femminile (gestito dalla confraternita dello Spirito Santo con un lascito della famiglia Avogadro). Originariamente eretto il 2/4/1599 presso S. Bartolomeo nel sobborgo di S. Gaudenzio, l’orfanotrofio fu trasferito nel 1604 a S. Lucia. Venne demolito nel 1625 nel corso dei lavori di ampliamento delle fortificazioni. Lo “spedale per le povere fanciulle” venne ricostruito entro le mura tra il 1627 e il 1666, su un terreno fornito dalla Regia camera nel quartiere di S. Martino.
Monastero di S. Maria Maddalena, ordine delle umiliate, sito nel sobborgo di S. Gaudenzio. La prima attestazione risale al 1339. Il 5/6/1570 viene aggregato alla Maddalena il monastero delle Umiliate di S. Cristoforo, fondato prima del 1323. Nel 1646 il governatore decise di demolire l’edificio “perché nella imminente guerra contro la Francia non venisse il monistero medesimo occupato dal nemico per bersagliare la città”, di conseguenza le umiliate vennero trasferite intra muros, dove costruirono un nuovo edificio sul sito di un palazzo comprato da Gambattista Caccia, nella parrocchia di Ognissanti, attiguo al monastero di S. Agostino. Nel 1798, a richiesta della municipalità, si trasferirono nel monastero di S. Agostino, cui furono unite con tutti i loro redditi il 30/5/1804. Le umiliate furono poi soppresse nel 1810 [Bartoli 1990 e 1995].
Monastero di S. Agostino, ordine di S. Agostino, situato presso la chiesa di Ognissanti, sorto nel 1480. Nel 1482 vi venne aggregato con le lettere apostoliche di Sisto IV il monastero di S. Agnese, sito nel borgo di S. Stefano, dell’ordine degli umiliati, esistente almeno da metà Trecento. Nel 1562 vi venne aggregato con le lettere apostoliche di Pio IV il Monastero di S. Antonio abate, monache dell’ordine cistercense, situato nel borgo Barazolo. Nel 1641 fu aggregato anche il monastero di S. Barbara. Venne soppresso il 10/5/1810.
Monastero di S. Maria del monte Carmelo, ordine dei carmelitani, sito nel borgo di S. Gaudenzio, fondato nel 1421 con le lettere apostoliche di Martino V e demolito nel 1552 per le fortificazioni. I carmelitani ripararono in città ed edificarono un convento vicino alla chiesa di S. Clemente. Nel 1763 essi, desiderando una chiesa più grande, ricostruirono S. Clemente, che era in cattive condizioni. Nel 1805 i carmelitani furono soppressi, e i preti della Congregazione di S. Filippo Neri domandarono l’uso della chiesa, dato che officiavano nella piccola chiesa di S. Giulio, per loro insufficiente. Il 25/4/1810 la loro congregazione fu però soppressa assieme alle altre dal decreto napoleonico di abolizione delle corporazioni religiose. Nel 1825 il cardinal Morozzo restituì ai filippini la chiesa, intitolandola a San Filippo Neri. Da quel momento in poi venne conosciuta come chiesa di S. Filippo al Carmine.
Convento di S. Pietro Martire, con annessa chiesa di giuspatronato della comunità, ordine dei predicatori, situato nel borgo di S. Gaudenzio. Fondato nel 1256, l’edificio fu demolito nel 1552 per le fortificazioni. I religiosi furono dunque trasferiti in città presso la chiesa di S. Quirico detta di S. Maria in Galardo, la cui fondazione rimonta almeno all’anno 1000, che fu loro ceduta nel 1555. S. Maria in Galardo era ubicata nella contrada di Porta S. Maria ed era dotata di un’ampia giurisdizione parrocchiale che andava dalle fortificazioni fino alla zona della Bicocca. Poco dopo, i domenicani edificarono una nuova chiesa che venne inaugurata dal vescovo Bascapè il 30/4/1599. Il convento venne chiuso nel 1808 e quindi soppresso nel 1810. La parrocchia ebbe però ben altra fortuna. Col decreto del 21/2/1806 del vescovo Melano, fu trasferito alla chiesa il titolo parrocchiale di S. Pietro de civitate, assumendo la denominazione di S. Pietro al Rosario [Malosso].
Parrocchia di S. Giulio, a Cantalupo, già esistente nel XII secolo, di giuspatronato della famiglia Brusati. Nel 1752 il vescovo Rovero Sanseverino sopprime il titolo parrocchiale riducendolo a semplice beneficio. I Brusati cedettero quindi nello stesso anno la chiesa alla Congregazione dei preti dell’oratorio di S. Filippo Neri. Nel 1806 i filippini si trasferirono alla chiesa di San Clemente, ragion per cui S. Giulio venne venduta dal governo come abitazione privata.
Chiesa e prepositura dei SS. Simone e Giuda de prato Rodoltae, chiesa degli umiliati, sita nel borgo di S. Simone, fu demolita a quanto pare nel 1668 nel corso dei lavori per l’ampliamento delle mura. I monaci, al contrario di altri monasteri, non furono però ammessi in città. Annesso vi era uno spedale. In precedenza, vi erano stati uniti gli umiliati di S. Tommaso apostolo, la cui casa secolo divenne poi caserma militare.
Parrocchia di S. Gaudenzio fuori le mura, detta poi di S. Martino, nel sobborgo di S. Martino accanto all’istituto de Pagave. L’oratorio di S. Martino fu costruito nel 1563 a ridosso delle mura, “super sito ruinai ecclesiae S. Gaudentii in suburbiis”. Ad officiare erano i canonici di S. Gaudenzio, finché lo Speciano non la eresse a parrocchia nel 1585. Nel 1727 il governo austriaco ne ordinava l’abbattimento, sempre per ragioni militari. Il parroco errò dunque in una serie di chiese: prima all’oratorio di S. Bernardino, poi alla chiesa di S. Guglielmo ottenuta grazie all’intercessione del vescovo Borromeo dall’ordine di Malta. Qui la confraternita del Santissimo Sacramento, che aveva seguito il parroco nelle sue peregrinazioni, eresse subito un proprio campanile. Poco dopo, il parroco ottenne l’antico oratorio del monastero di S. Antonio, da tempo in disuso, su cui venne eretta la chiesa di S. Martino (con un soccorso finanziario di 30.000 lire da parte del capitolo di S. Gaudenzio), che fu chiesa parrocchiale dal 1734 al 1831, poi sostituita dalla chiesa di S. Maria delle Grazie [Simonetta 2001].
Abbazia di S. Maria delle Grazie, a Barazolo, di ragione degli agostiniani della Congregazione Lateranense, fondata nel 1479 con titolo di priorato, nel 1628 elevata ad abbazia. Nel 1510 vi venne unita la prepositura di S. Marta. Nel 1752 i canonici lateranensi abbandonarono l’abbazia e vennero sostituiti dagli olivetani. Nel 1782 fu secolarizzata, su supplica di sette dei suoi canonici, e i beni furono devoluti allo Stato; per il servizio reso, i canonici furono decorati con la croce dell’ordine militare di S. Maurizio e S. Lazzaro. Il 10/5/1810 venne soppressa assieme al monastero e nel 1831 fu riaperta e tornò ad essere parrocchia essendovi trasferito il titolo di S. Martino [Barbierato]. Nel 1827 il vescovo Morozzo intendeva infatti vendere il complesso per finanziare i seminari diocesani, ma aveva inserito nel contratto la clausola che i parrocchiani di S. Martino avrebbero potuto riscattare la chiesa entro tre anni, e così fecero [Barlassina, Picconi, p. 162]. Nella canonica dell’abbazia sorse nel 1835 l’istituto De Pagave, casa d’industria per i poveri abili al lavoro e di ricovero per gli inabili, che negli anni Settanta fu ricostruito e adibito a ricovero e punto d’assistenza per gli anziani.
Monastero di S. Lorenzo, ordine di S. Benedetto, sobborgo di S. Stefano. La chiesa abbaziale rimonta ad epoca paleocristiana. Chiesa e monastero vennero demoliti nel 1553 per lasciar spazio alle fortificazioni; il titolo parrocchiale fu trasferito alla chiesa di Ognissanti. Seguirono lunghe trattative per una ricostruzione del monastero in città, con pressioni da parte dei Farnese (Ferdinando, vescovo di Parma, era abate commendatario di S. Lorenzo). Nel 1603 il Bascapè diede il permesso di costruire entro la città, con la limosina dell’abate commendatario, un nuovo monastero con chiesa per i padri cappuccini, “perché stavano lontano dalla città un grosso miglio”, che venne intitolato a S. Lorenzo del Pozzo. Contemporaneamente, i cappuccini continuavano ad utilizzare come noviziato il monastero extra cittadino di S. Maria della Misericordia. S. Lorenzo venne soppresso il 10/5/1810 [Moretti].
Parrocchia di Ognissanti, esistente già nel 1124. Nel 1660 rimase con un solo parroco, poiché una sua ricca prebenda fu utilizzata per l’erezione della nuova parrocchia suburbana di S. Maria della Bicocca. Nel 1752 le fu tolto il titolo di parrocchia dal vescovo Rovero Sanseverino, con la motivazione che Giuseppe Cattaneo, di antica famiglia nobiliare e titolare del giuspatronato, “era incapace per le sue tenui sostanze di provvederle decentemente” [Barlassina, Picconi, p. 147]. La cura d’anime era però ormai ridotta a sole “tre o quattro famiglie, che ne formavano il distretto”, trasferite alla parrocchia di S. Giacomo (poi anch’essa sciolta nel 1782). I Cattaneo ne fecero quindi dono alla Congregazione dei parroci.
Parrocchia di S. Giovanni Apostolo ed Evangelista, detta deintus vineis “perché situata tra vigneti”, esistente già nel XII secolo, in origine di ragione del monastero di S. Lorenzo, poi ceduta a frati agostiniani a metà Duecento, fu infine demolita nel 1552 per le fortificazioni. I frati che vi risiedevano vennero trasferiti nella parrocchiale di SS. Giovanni e Paolo, in città. Il convento fu soppresso il 20/2/1798 assieme a quello di S. Nicola da Tolentino, in quanto considerato istituto di dimensioni troppo esigue. La parrocchia resistette fino alla disposizione del vescovo Melano del 21/2/1806 che riduceva le parrocchie cittadine a quattro.
Parrocchia di S. Stefano, sita presso la porta di S. Stefano e anticamente fregiata del titolo di basilica, venne demolita nel 1635 per ampliare le fortificazioni. Il suo parroco ricevette in cambio l’uso della SS.ma Trinità (detta di S. Maria del Monserrato), allora gestita dalla confraternita di S. Maria del Gonfalone. La confraternita di S. Stefano riparò invece nel 1635 nella chiesa di S. Giacomo dove costruì un nuovo oratorio, che i confratelli poi lasciarono per aggregarsi alla confraternita di S. Maria del Gonfalone presso la SS.ma Trinità nel 1678.
Parrocchia della SS.ma Trinità, detta anche di S. Maria del Monserrato, posta sul monte Oriolo vicino alla porta di S. Stefano. Il primo documento citato dal Frasconi che la riguarda è del 1190. Semplice oratorio in precedenza, è assegnata nel 1590 alla confraternita di S. Maria del Gonfalone, prima residente nella chiesa di S. Dionigi il vecchio, che restaura l’edificio. Messa a nuovo, la chiesa viene consacrata nel 1598 dal Bascapè. Con la chiusura delle parrocchie di S. Giacomo e di Ognissanti alla fine del 1700, ne ereditò il territorio [Feltrami]. Nel 1857 il vescovo Gentile le assegnò anche la zona attorno alla stazione ferroviaria, rendendola la parrocchia più vasta della città. Chiesa e confraternita erano riccamente beneficate, potendo contare su circa 50 titoli (cappellanie, legati, anniversari) nel 1819, molti dei quali erano però stati “demaniati” dal governo napoleonico in seguito alla soppressione della compagnia [Vp, 365, Parrocchie della città, SS.Ma Trinità, Nota de benefici di Iuspatronato].
Oratorio di S. Giulio di Carpogno, borgo di S. Stefano sulla strada che va a Cameri. Esistente già nel XIII secolo, l’edificio risulta distrutto nel 1658, tanto che il vescovo Odescalchi ordina che sia sconsacrato e di trasferire le messe in suffragio nella parrocchia di S. Stefano, da cui dipendeva.
Chiesa e abbazia di S. Nazzaro della Costa, sobborgo di S. Agabio, nominata già nel 1124. Nel 1256 il vescovo Cavallazzi concede la chiesa alle clarisse del monastero di S. Pietro in Cavaglio, che nel 1263 si trasferiscono però in città a S. Domenico per paura della guerra. Nel 1445 la chiesa, affidata ai frati minori di S. Francesco dell’osservanza, venne ampliata e i frati vi costruirono un loro convento. Nel 1626 gli osservanti lasciarono chiesa e convento ai riformati, in virtù delle lettere apostoliche di Urbano VIII, rifugiandosi a Trecate. Seguì la soppressione nel 1810. Il complesso fu in seguito acquistato dall’Ospedale di S. Michele, attuale proprietario, e grazie ad una convenzione del 1923 tra il consiglio municipale e i frati minori di Alessandria veniva restaurato. A partire dal 1929, i minori entravano nuovamente a S. Nazzaro.
Antica chiesa parrocchiale di S. Agabio, situata anticamente presso lo spalto. Nel 1124 era chiamata “cappella”. Resistette alle fortificazioni cinque-secentesche e fu distrutta nel 1727 per l’ampliamento delle mura. In un annesso oratorio risiedeva una confraternita del Santissimo Sacramento.
Parrocchia di S. Martino detto de Mollia, sobborgo di S. Agabio, di giurisdizione del monastero di S. Lorenzo, esistente già all’inizio del XII secolo. Nel 1618 la visita pastorale del vescovo Taverna la mostra in disuso. Nel 1729, dopo la demolizione S. Agabio, fu assegnata al parroco di quest’ultima. Subito dopo venne costruita una nuova parrocchiale con l’intitolazione nuovamente a S. Agabio.
Monastero di S. Gerolamo, ubicato nel sobborgo di S. Andrea, era stato fondato dal canonico della cattedrale Niccolò Morbio nel 1490. Avendo solo due monaci e un converso fu sciolto il 6/3/1782 e demanializzato.
Parrocchia di S. Andrea, sobborgo di S. Andrea sulla via Maestra, nominata nel 1133 come “capella extra civitatem”, sede di un’omonima confraternita. Nel 1517, essa fu assegnata con la cura d’anime al vicino monastero di S. Girolamo, scatenando le proteste e un conflitto con il borgo di S. Andrea, che nel 1563 vi insediò un proprio parroco. Nel 1566 si ricorse al Senato di Milano, che diede ragione al monastero e condannò i borghigiani alle spese processuali. Il nuovo priore del convento, Stefano da Biella, rinunciava però nello stesso anno alla parrocchia per smussare il conflitto con il borgo (anche se trattenne la maggior parte dei suoi beni “stabili”). Di conseguenza, la parrocchia divenne di giurisdizione vescovile, e restò tale fino al 1913. Dal 1913 in poi fu gestita dai frati minori, e tornò al clero diocesano in tempi recentissimi, nel 2005.
Collegiata di S. Michele, sita entro l’Ospedale di S. Michele a S. Agabio. Nel 1509 Giulio II aveva unito la collegiata di S. Maria di Sillavengo (eretta nel 1333) all’ospedale, poiché risultava senza residenza. La chiesa fu distrutta assieme all’ospedale e ricostruita con esso intra muros nel 1643 con dedicazione ai SS. Michele Arcangelo ed Antonio abate.
Chiesa di S. Maria Maddalena e conservatorio delle donne convertite, fondate nel 1639 a Cantalupo da Martino d’Aragona. Nel 1798 le convertite furono traslocate all’Ospedale di S. Michele e nel 1799 nel collegio di S. Orsola, per poi tornare brevemente al loro luogo originario. Soppresse nel 1810, nel 1817 l’edificio passò all’Ospedale di S. Giuliano.
Parrocchia di S. Maiolo a Veveri, sita nella frazione di Veveri, nominata già nel 1124 dal vescovo Litifredo come cappella. In età moderna, la chiesa fu ridotta ad oratorio, dipendente dalla chiesa di S. Andrea. A causa dell’aumento della popolazione, nel 1913 il cappellano divenne coadiutore parrocchiale, e nel 1915 la chiesa divenne parrocchia autonoma.
Oratorio della Madonna del Bosco, sul ponte dell’Agogna sulla strada per Vercelli, costruito nel 1867 su ex-voto di Edoardo Lenta. La prima cappella fu benedetta nel 1886. Alla costruzione aveva collaborato anche la canonica di S. Gaudenzio. Nel 1922 appariva troppo esiguo, dovendo servire una zona piuttosto decentrata ma in incremento demografico.
Parrocchia di S. Maria della Bicocca, nella zona della Bicocca, ultimata nel 1658 sul sito di una cappella preesistente detta “degli spagnoli”, ordinata parrocchia con un decreto del vescovo Odescalchi. La chiesa di S. Croce era infatti rimasta entro le mura nel corso delle fortificazioni e non poteva più servire allo scopo.
Parrocchia di S. Eustachio, sita nella frazione di Torrion Quartara. Fino al 1824, la popolazione di questa zona si suddivideva tra le parrocchie di S. Maria alla Bicocca e di S. Martino, allorché il vescovo Morozzo vi eresse una parrocchia intitolata a S. Eustachio. Già nel 1771, comunque, il capitolo di S. Gaudenzio aveva fondato nell’area una cappellania, a cui nel 1773 il vescovo Balbis Bertone aveva concesso il fonte battesimale. La dotazione su cui era poi stata eretta la parrocchia consisteva in questa cappellania, sovvenzionata dal capitolo di S. Gaudenzio, e da un beneficio fondato da Michele Capra nel 1200 nella chiesa di S. Lazzaro, poi trasferito nell’oratorio di S. Eustachio che si trovava in cittadella [Cirri].
Parrocchia di S. Rocco, sita nel sobborgo di S. Andrea, quartiere di S. Rocco. In seguito al piano regolatore del 1958, si decise di costruire un nuovo quartiere in una zona fino a quel momento di campagna, di proprietà di due sole famiglie (Bina e Chini). Nel 1965 veniva fondata la parrocchia del quartiere, intitolata a S. Rocco.
Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù. Venne costituita con decreto vescovile il 20/12/1919, in luogo situato tra la Bicocca e S. Martino, e affidata ai padri Cappuccini della provincia di Alessandria [E la chiamavano Cittadella].
Parrocchia di S. Giuseppe, sita nel rione di Porta Mortara, prima facente parte dell’area della Bicocca [Porta Mortara…ieri…oggi]. Nel 1923 era sorto un oratorio intitolato a S. Giuseppe, mutato in vicaria autonoma nel 1929 e affidato alla Congregazione degli Oblati dei SS. Gaudenzio e Carlo. Una nuova chiesa con funzioni parrocchiali fu aperta con intitolazione a S. Giuseppe nel 1933.
Parrocchia della Maria Santissima della Neve, sita ad Olengo nel vicariato di Vespolate e da poco passato in quello di Trecate. Prima esistente in forma di semplice cappella, divenne parrocchia autonoma da Vespolate a inizio Cinquecento. L’elezione dei parroci spettava all’arcidiacono del capitolo di S. Maria (duomo di Novara) [Colli].
Parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, sita nella frazione di Pagliate.
Parrocchia di S. Andrea apostolo, sita a Pernate.
Parrocchia dei SS. Ippolito e Cassiano, sita a Lumellogno [Simonetta 2004], anticamente solo di S. Ippolito, consacrata nel 1627. Esistevano a Lumellogno due altri oratori, uno intitolato a S. Rocco, “situato in qualche piccola distanza dal paese” e uno a S. Pietro in paese, ancora esistenti al tempo della visita del Morozzo del 1819 [Vp, 367, 1819, f. 402]. Nella parrocchiale era eretta la compagnia del SS. Sacramento.
Parrocchia della Regina della Pace, sita a Vignale [Grassi].
Chiesa della Madonna del Latte, anticamente della Madonna della Scaglia, sita nella frazione di Gionzana [Stoppa, La Madonna del Latte].
Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, sita nella frazione di Isarno, già citata in una bolla di Innocenzo II nel 1132 [Saglio].
Parallelo e convergente con il mondo ecclesiastico era quello della carità. È possibile avere un quadro esauriente delle istituzioni caritative della città grazie a diverse fonti [Cfr. in particolare il Quadro degli istituti di beneficenza esistenti nella città di Novara sito in ASN, Comune, busta 395, intitolata Congregazione di carità; e le inchieste sulle opere pie e sulle istituzioni caritative del 1861, 1880, 1938 e 1965, i cui risultati sono riportati nel Catasto della beneficenza curato da Umberto Levra; cfr. anche Morandi, Ferrara, Istruzione e beneficenza; Negroni, 1877]:
Ospedale Maggiore di Carità. In epoca medioevale erano sorti vari ospedali in città, il maggiore dei quali era l’ospedale di S. Michele Arcangelo, detto anche della “carità”, sito nel sobborgo di S. Agabio e poi ricostruito intra muros nella zona case nuove dopo la demolizione del 1625. “Questo luogo già esisteva nel secolo nono col titolo di S. Michele, ed era in allora asilo di pellegrini, di poveri infermi e di trovatelli. Nel 1482 avviene la concentrazione con altri spedaletti minori, con la bolla di Sisto IV del 12 novembre che ne prescriveva il regolamento interno” [Frasconi, Documenti]. Nel 1836 aveva 270 letti, ed era deputato anche “al sequestro ed alla cura di poveri mentecatti; al segreto nutrimento di innocenti frutti della seduzione o della dissolutezza; all’adozione di fanciulli esposti di ambo i sessi”. 140 circa sono coloro che vengono mantenuti entro le mura e 800 presso nutrici e “vi trovano appartato ricetto i poveri cronici e pronta medicatura i sifilitici. Si sovvengono inoltre colle rendite dell’ospedale misere madri allattanti e per lasciti speciali dotansi meschine zitelle” [Quadro degli istituti, 1836; cfr. anche Moranti-Ferrara, L’ospedale].
Ospedale di S. Giuliano, esistente già nel 1204, era amministrato dalla “Consorteria de’ calzolai”, cioè il paratico dei calzolai, che era subentrato alla Congregazione dei battuti di S. Giuliano nel 1407 [Alla cura e al governo dei calzolai].
Nel 1458-59 e nel 1476 i battuti diedero vita a una lunga causa contro il paratico per l’amministrazione dell’ospedale, ma senza successo. Contemporaneamente, il paratico era in lite anche con la città, in seguito alla decisione dei calzolai di chiudere parte del proprio portico in piazza del mercato per farne nuove botteghe. Peraltro, proprio la finalità caritativa del paratico, che trovava espressione nella gestione dell’ospedale, gli permise probabilmente di sopravvivere agli statuti sforzeschi del 1460, che abolirono tutte le corporazioni [Longo, Letteratura e pietà, pp. 273-420]. Nel 1482 le lettere apostoliche di Sisto IV ne decretarono la fusione con S. Michele ma vennero ignorate da S. Giuliano. Solo molto più tardi, nel 1562, l’ospedale di S. Michele mosse lite contro S. Giuliano pretendendo di far valere le lettere di Sisto IV e di incorporarlo, ma perse la causa. Nel 1769, con l’istituzione della Congregazione di carità, ordini sovrani imposero la fusione con S. Michele ma l’unione non fu realizzata nemmeno in tale occasione. Solo nel 1801 il governo napoleonico ingiunse a S. Giuliano di unirsi a S. Michele, vendendone subito la chiesa e le case limitrofe. Nel 1817, tornati i Savoia, S. Giuliano fu ripristinato, portandone la sede alla chiesa di S. Maria Maddalena e delle convertite. Nel 1836 aveva 18 letti. Nel 1929 risulta raggruppato con S. Michele nell’Ospedale maggiore della carità e opere pie. Soltanto nel 1980 esso venne però fuso definitivamente con S. Michele.
Ministreria (poi carità) de poveri, fondata probabilmente nel XIII secolo, è il titolo dato dal capitolo della cattedrale ad alcuni capitali ricevuti da ignoti per somministrare 400 lire annue da erogarsi all’istituto dei poveri. Ancora esistente nel 1977, era stato concentrato nell’E.C.A.
Monte di pietà, fondato da Amico Canobio, stipendiava nel 1836 anche 4 medici e somministrava medicinali gratuiti. In qualità di protettore dei carcerati il monte stipendiava anche il medico delle carceri. La sua amministrazione era demandata ad una congregazione laica di oltre 100 individui.
Legato Stramuzzi, fondato nel 1478, erogava sussidi ai poveri. Censito l’ultima volta nel 1965, quando risulta concentrato nell’E.C.A.
Opera pia della Beata Vergine del Riscatto, fondata nel 1479. Concedeva da 2 a 4 doti annue a povere zitelle. Censita l’ultima volta nel 1880.
Opera pia S. Giuseppe, fondata nel 1501. Concedeva 2.000 lire annue all’istituto dei poveri oltre a mantenere una propria cappella. Ancora esistente nel 1977, quando risulta concentrata nell’E.C.A.
Opera pia Archinto, istituita dal vescovo Archinto (morto nel 1576), con una distribuzione fissa il 4 ottobre di ogni anno ai poveri, alle orfanelle, ai custodi della cattedrale e ai carcerati. Non più censita nel 1861, compare nuovamente nella rilevazione del 1938 in quanto rifondata nel 1889. Nel 1965 risulta concentrata nell’E.C.A.
Consorzio dei poveri, poi consorzio dei poveri di S. Andrea, fondato nel 1592 per fornire sussidi ai poveri, censito ancora nel 1977 risulta fuso con l’E.C.A.
Orfanotrofio di S. Lucia, femminile, fondato nel 1599 su lascito di Costanza Avogadro (che fu convinta dal Bascapè). Riceveva in educazione anche zitelle i cui parenti potevano fornirle di un letto e utensili in istituto o sborsare 767 lire. Teneva anche scuola di fanciulle. Conduceva ancora esistenza autonoma nel 1977 con statuto proprio del 1874 [Airoldi Tuniz, L’hospitale di S. Lucia].
Opera pia Avogadro, istituita nel 1618 da Matteo Avogadro, in gestione all’Ospedale di S. Michele per l’erogazione di quattro doti annue. Non più censita nel 1861.
Opera pia Spadina poi legato Piccinini, istituita dal capitano Picinino Spadino con testamento del 1641, dispensava doti a fanciulle della sua discendenza fino al decimo grado del diritto canonico ed era amministrato dal capitolo della cattedrale. Il capitale lasciato in eredità doveva per disposizione testamentaria essere investito in “luoghi” del Monte di S. Ambrogio di Milano. Nel 1819 il vescovo nota che “La fedeltà e prontezza dei ss.ri Canonici nel pagare le dette doti suscitò il prurito in molte famiglie di partecipare di questo diritto col farsi dichiarare comprese nella cognazione del testatore, appoggiandosi ad alcune espressioni generali usate nel testamento […] in un certo modo indicativo, non taxativo” [Vp, 363, 1819, f. 137]. Censita l’ultima volta nel 1861.
Lascito Ferrari, poi legato Ferrari di Lumellogno, creato nel 1642 per dispensare doti, è censito per l’ultima volta nel 1965 quando risulta fuso con l’E.C.A.
Opera pia Caccia-Faraggiana, creata nel 1690 per dispensare doti, risulta concentrato nell’E.C.A. nel 1965.
Opera pia Nazzari, istituita con il testamento del canonico Ferrante Nazzari nel 1701, elargiva 69 lire annue a favore dell’Ospedale e alcune doti. Finanziava inoltre un beneficio e il mantenimento di una cappella a S. Gaudenzio e forniva soccorso a maschi della famiglia Nazzari per il conseguimento della laurea. Non censita nel 1861, compare nuovamente nel 1880 in quanto rifondata nel 1868. Nel 1965 è concentrata nell’E.C.A.
Opera pia Borromeo, creata dal vescovo Giberto Borromeo con testamento del 18/3/1724 per doti ed elemosine a poveri della famiglia Borromeo e ad altri di diocesi e città, “preferendo nella distribuzione delle doti le figlie pericolanti”. Ancora autonomamente esistente nel 1977, con denominazione Opera pia cardinal Borromeo.
Opere pie Baldi e Sansati, riservate al capitolo di S. Gaudenzio, fondate rispettivamente nel 1728 e nel 1780, concedono la prima elemosine a chierici poveri; la seconda elemosine a poveri, preferibilmente a parenti bisognosi del fondatore. Censite ancora nel 1977, risultano concentrato nell’E.C.A.
Opera pia Tornielli, fondata nel 1740, distribuiva 12 doti annue. Censita l’ultima volta nel 1965, quando rientra sotto l’E.C.A.
Opera pia Rocca, fondata nel 1751, spettava all’Ospedale di S. Michele per finanziare il ricovero di poveri convalescenti. Non più censita nel 1861.
Opera pia Caccia, fondata nel 1755 con il testamento di Giuseppe Caccia che legava metà delle sue sostanza all’Ospedale di S. Michele, con obbligo di sovvenzionare famiglie nobili decadute. Censita l’ultima volta nel 1861.
Opera pia Borella, fondata nel 1762 e destinata ai parroci di Novara per devolverla in doti.
Lascito Caccianotti, fondato nel 1762 per sussidiare poveri, viene estinto nel 1978.
Pio istituto delle Rosine, fondato nel 1766 da Rosa Covone, terziaria domenicana, come luogo di ricovero, mantenimento ed educazione femminile, ancora esistente nel 1977 con statuto del 1889.
Opera pia Renzi, fondata nel 1770 per erogare due doti, rispettivamente per una zitella di Orfengo e per una di Pisnengo. Non più censita nel 1861.
Opera pia Albertazzi, istituita con il testamento di Gio. Albertazzi del 1787 e riservata al capitolo della cattedrale per distribuire elemosine “preferibilmente a persone civili decadute”. Censita l’ultima volta nel 1965, risulta fusa nell’E.C.A.
Orfanotrofio Dominioni. Orfanotrofio maschile, fu eretto nel 1792 con la sostanza del capitano Francesco Dominioni. Nel 1829 il Dominioni aveva fatto dono alla città del compatronato dell’istituto trasferendo al consiglio comunale l’esclusiva amministrazione e il diritto di nominare un quarto degli orfani. Ancora esistente nel 1977 con statuto del 1954.
Opera pia Matta d’Alfiano, creata nel 1795 e gestita dagli eredi, erogava tre doti. Non più censita nel 1861.
Opera pia Barbavara, fondata nel 1799, concedeva elemosine a poveri, preferendo i padri di famiglia di cagionevole salute e di età avanzata. Gestita dagli eredi, non risulta più censita nel 1861.
Opera pia Pallavicini, fondata nel 1802 da un ignoto benefattore (si ritiene un Pallavicini) beneficava l’ospedale per la distribuzione di elemosine. Censita l’ultima volta nel 1861.
Opera pia Margheris, fondata nel 1804, sovvenzionava l’ospedale con sei doti, poi ridotta nel 1829 a 460 lire annue. Non più censita nel 1861, ricompare nel 1938 in quanto rifondata nel 1907. Nel 1965 risulta fusa nell’E.C.A.
Opera pia Solari, costituita con il testamento di Antonia Solari nata Clerici nel 1808, a pro di poveri convalescenti che escono dall’ospedale. Censita l’ultima volta nel 1861.
Opera pia Broli, fondata nel 1809 e spettante all’Ospedale di S. Michele per “compera di fassine da distribuirsi nell’inverno ai poveri di Novara”. Non più censita nel 1861.
Opera pia Grandina, creata nel 1810 con il lascito di un terzo del reddito del parroco di S. Agabio a poveri della sua parrocchia. Non più censita nel 1861.
Opera pia Chigi, fondata nel 1819 dal sacerdote penitenziere della cattedrale, sovvenzionava donne vedove dando loro alloggio, legna e carbonella d’inverno e alimentandole con pane e vino. Non più censita nel 1861.
Ospizio provinciale degli esposti, fondato nel 1822 per il ricovero e il mantenimento dei minori abbandonati, non più censito nel 1938.
Opera pia dei parroci vecchi e inabili, fondata nel 1828 per concedere sussidi a parroci, ancora esistente nel 1977 con statuto del 23/11/1875.
Opera pia Porta, sovvenzionata con le rendite di una possessione a Landiona di proprietà del cavalier Costanzo Porta, morto nel 1829, e destinata al soccorso dei malati cronici non accettati dall’ospedale. In un secondo momento venne destinata a finanziare il soggiorno dei cronici curati in ospedale in separata sede. Censita l’ultima volta nel 1861.
Istituto de Pagave per i poveri, fondato nel 1833. Il suo scopo era istituire una casa d’industria per i “poverelli”, residenti da almeno 10 anni in città (ancora esistente).
Istituto civico Bellini d’arti e mestieri, fondato nel 1833 per fornire istruzione professionale ai poveri, estinto nel 1979.
Legato Moschini, fondato nel 1854 per erogare doti, nel 1880 risulta controllato direttamente dalla Congregazione di carità. Nel 1965 viene concentrato nell’E.C.A.
Istituto musicale Brera, fondato nel 1858 per fornire istruzione musicale ai poveri, ancora esistente nel 1977 con statuto del 1919.
Opera pia di S. Biagio, di origine ignota, gestita dalla famiglia Leopardi, ogni anno distribuiva nel giorno di S. Biagio una libbra di manzo, una di pane e un boccale di vino a ciascun povero della parrocchia di S. Pietro. Fu poi convertita in elemosina. Non più censita nel 1861.
Opera pia Ferruta, fondata nel 1861 per fornire sussidi ai detenuti, nel 1880 risulta controllata direttamente dalla Congregazione di carità e concentrata nell’E.C.A. nel 1965.
Opera pia istituto professionale Omar, fondato nel 1872 per fornire istruzione (ma anche sussidi dotali) ai poveri, ancora esistente con statuto del 1907.
Opera pia Negroni per gli asili di infanzia, fondata nel 1890, ancora esistente in forma autonoma nel 1977 con statuto del 1898.
Pio lascito Borzini, fondato nel 1890 per fornire sussidi ai poveri, risulta concentrato nell’E.C.A. nel 1965.
Legato Bollini, fondato nel 1907 per fornire sussidi ai poveri, risulta concentrato nell’E.C.A. nel 1965.
Opera pia Giovanni e Angiolina Donnino, fondata nel 1913 per il ricovero, il mantenimento e l’educazione di minori e adulti handicappati, ancora esistente in forma autonoma nel 1977.
Pii legati detti elemosine di Santa Croce; legato elemosiniero Gregorio Botta, riconosciuti nel 1913, concentrati nella Congregazione di carità l’anno stesso e in seguito confluiti nell’E.C.A.
Pia casa della Divina provvidenza, fondata nel 1920 per il ricovero, il mantenimento e l’educazione di minori orfani e per l’assistenza a donne anziane. Esistente ancora nel 1977 in forma autonoma.
Pia casa del divino redentore, fondato nel 1949 come ricovero e per l’ assistenza ad ex-detenuti. Esistente ancora nel 1977 in forma autonoma.
Legato ingegner Francesco Ricca, per sussidi ai poveri, concentrato nell’E.C.A. nel 1965.
Legato Tesca, per sussidi ai poveri, concentrato nell’E.C.A. nel 1965.
Assetto Insediativo
Assetto insediativo
Fin da epoche remote l’assetto insediativo di Novara è organizzato su un corpo centrale, racchiuso da mura, e dei corpi santi o sobborghi addossati ad esse [Motta; L’evoluzione della forma urbana; Novara, l’evoluzione urbanistica].
L’insediamento era funzionale ab origine alla costruzione dei diritti di cittadinanza. In età romana, e poi per tutta l’età medioevale, si distinguevano a Novara dei cives che abitavano nell’urbs, e come tali ammessi al governo del municipium, e degli incolae residenti nei suburbia mura adiacentia, che risolvevano gli obblighi fiscali con i cives ma erano esclusi dal municipium [Cognasso, p. 21].
Nel secolo XIII, però, vi è uguaglianza assoluta tra i cittadini di Novara che abitano entro le mura e quelli dei borghi coerenti. L’area fuori delle mura era detta curia novariensis o campanea novariensis ed era suddivisa in aree di pertinenza corrispondenti alle quattro porte (quartieri) della città. Negli statuti del 1277 i limiti della curia sono indicati nel Castellazzo, una fortificazione a due miglia dalla città; nella Scartabaglia, fra il sobborgo di San Martino e Torrion Quartara; e a settentrione fino alla cascina della baraggia dei Bollini verso Cameri e la regione di Matte e la cascina di Resta Porca. Vi era poi tutto il territorio del Vescovado, sottoposto alla signoria della città, ma le cui comunità erano spesso dotate di statuti particolari. All’interno di quest’area allargata, gli statuti distinguevano vari tipi di abitati: burgi, villae, universitates, coadunationes, societates, burgorum et villarum districtus, vici. È comunque abbastanza incerto quale fosse all’epoca la reale influenza di Novara su questo variegato insieme di comunità. Una posizione speciale ricoprivano i burgi, che diventavano tali in base a una concessione del comune novarese [Cognasso, p. 255] e che venivano retti da un podestà eletto a sorte all’interno del Consiglio generale.
L’assetto insediativo venne sconvolto dai lavori per le fortificazioni intrapresi a metà Cinquecento [Beltrame; Leydi; Pellini], dando vita a quattro corpi santi (Bicocca, S. Martino, S. Andrea, S. Agabio) molto più distanti dalla città rispetto ai precedenti sobborghi.
Prima delle distruzioni cinquecentesche, i sobborghi erano molto più numerosi. A sud si estendevano il borgo di S. Maria e la Cittadella, così chiamata dal nome del fortilizio che vi venne costruito alla fine del Trecento e demolito nel 1468. A sud-ovest si trovavano i borghi di S. Luca e di S. Lazzaro, dai nomi delle rispettive chiese. A ovest vi erano i borghi di Barazolo e, salendo, di S. Gaudenzio, ai cui confini scorreva il fiume Agogna e in cui si ergeva l’antica basilica di S. Gaudenzio poi ricostruita intra muros. In quest’area, il sobborgo di S. Martino che prese il posto degli altri due assunse come suo centro Barazolo, prendendo il suo nome dall’omonima chiesa [Morreale, Il sobborgo di S. Martino, pp. 13-16]. A settentrione, vi erano i borghi di S. Simone (che prendeva il nome dall’omonimo monastero di umiliati), di Cantalupo e di S. Stefano, in seguito chiamato di S. Andrea, comprensivo della regione di S. Rocco (dove già nel 1627 era attestata una piccola cappella campestre). A est vi era infine il borgo di S. Agabio.
Nel 1552 vennero rasi al suolo i sobborghi di S. Agabio, della Cittadella e di S. Stefano. Si distrussero anche molte chiese antichissime come S. Lorenzo, S. Stefano, S. Maria delle Caselle, S. Giovanni de Vineis e le basiliche di S. Agabio e di S. Lorenzo. Nel 1553 vennero distrutti i sobborghi di S. Gaudenzio e S. Lazzaro. La costruzione delle fortificazioni procedette a rilento, venendo completata dal Fuentes solo nel 1606. Come notava il Bianchini, “Se gli Spagnuoli con tutta premura ed anzi con una specie di furore diroccarono sino dal 1552 i nostri ampli sobborghi, con tanta maggiore lentezza andavano costruendo le fortificazioni, cosicché non ostante il decorso di mezzo secolo vedevansi ancora sparse le rovine delle chiese, de conventi e delle case degli abitanti, ed ammonticchiate le masse enormi de materiali di provenienza da tanto di struggimento” [Bianchini, p. 53]. Ulteriori opere di adeguamento si rendevano necessarie però anche negli anni successivi: particolarmente violenta fu la ripresa dei lavori dal 1625 fino agli anni Quaranta, con strascichi fino agli anni Sessanta. La Regia Camera aveva risarcito i danni provocati concedendo ai vari enti terreni situati perlopiù nella regione delle Case nuove, dove molti di essi si trasferirono. I sobborghi si erano intanto trasformati “in pochi cascinaggi e tuguri abitati da contadini qua e là dispersi, e con una sola chiesa a cui accorrere per la sacra liturgia, ma per lo contrario molti erano un tempo e assai popolosi, e cospicui per le molte chiese, monisteri d’ambedue i sessi, ed i vari spedali” [Frasconi, Topografia antica, p. 159].
Il rifacimento della città aveva avuto pesanti effetti non solo sull’urbanistica ma anche sulla demografia; come riassumeva il Consiglio maggiore nel 1615: “La città si ritrova con poco numero di uomini per esser di poco sito e gran parte di esso consiste in monasteri diversi di frati e monache e chiese, quali insieme con il presidio ordinario, hanno sempre causato la penuria di habitatori” [Cognasso, p. 404].
I lavori avevano dunque cambiato in profondità la forma urbis e con essa anche l’assetto insediativo, come si può constatare attraverso un paragone cartografico tra il periodo precedente e quello successivo. La città si era dilatata verso sud, “in seguito all’unione al tessuto a scacchiera sia di aree preesistenti già urbanizzate quanto di aree edificabili. La nuova configurazione era di forma poligonale con delle sporgenze esterne che assommavano al numero di dieci” [Cirio, pp. 109-110]. Dopo il completamento dell’opera, le porte della città erano quattro, e da esse si dipartivano le principali strade: a nord porta S. Stefano in direzione Borgomanero, a est porta Milano, a ovest porta Vercelli e a sud porta Mortara. Cingeva la città un ampio fossato (il fossatum novarese) e oltre questo un ulteriore spazio concentrico libero da costruzioni, i cosiddetti “spalti”, lasciati liberi per permettere una migliore visibilità delle truppe in avvicinamento. La presenza di questi due anelli separava in maniera molto più netta rispetto a prima la civitas dai sobborghi circostanti.
Nel 1814 entro la cerchia dei bastioni si calcolava vi fossero 6.774 abitanti. Tutt’attorno, S. Agabio ne contava 442; S. Andrea 1.648; S. Martino 1.400; la Cittadella 954.
Come sintetizza il Casalis, al tempo della Restaurazione Novara era formata da “Quattro grossi sobborghi, otto comunità ed un cascinale [che] compongono il circondario della città: la sua superficie si estende per 148.222 pertiche censuarie milanesi […] Circondano la città, a est il sobborgo di S. Agabio, a nord quello di S. Andrea, a ovest quello di S. Martino, a sud la Bicocca. I primi tre sobborghi vantano ciascuno una propria parrocchia, la Bicocca ne ha due, di cui una situata nella zona di Torrione-Quartara” [Casalis, pp. 131-2].
In tempi recenti, la delibera n. 358 del consiglio comunale del 31/5/1974 riorganizzava la maglia amministrativa interna in 22 “sezioni” [quartieri e frazioni, v. voce “frazioni”].
Nella sua proposta di suddivisione, l’assessorato per la programmazione e il decentramento faceva notare che “alcune perplessità sono sorte al momento della definizione dei confini di quartiere, che spesso si confondono con altri rendendo difficili tracciati di contorno definitivi. Particolarmente in questi casi si è tenuto conto di due elementi di consistente significatività: il confine parrocchiale e quello delle zona di censimento previste in occasione dell’ultimo censimento della popolazione (1971)”. In particolare, aveva avuto un ruolo importante la distrettuazione imposta dal censimento: “Il tentativo di far coincidere i limiti del quartiere o della frazione con quelli di una o più sezioni di censimento è stato raccomandato dalla considerazione che, in tal modo, è possibile servirsi dei dati raccolti per il censimento stesso al fine della determinazione della popolazione di ogni frazione o quartiere, altrimenti quasi impossibile a rilevarsi, e della configurazione economica e culturale” [Assessorato alla programmazione, partecipazione, istruzione, Proposta per una suddivisione della città in ordine alle necessità di decentramento e all’avvio delle esperienze partecipative di Quartiere o di Frazione]. La finalità della riorganizzazione era permettere una “programmazione ordinata degli interventi nelle varie zone che deve avere funzioni obiettive di riequilibrio e di garanzia di un’opportuna organizzazione sociale ed amministrativa per ogni unità fondamentale della città”. In particolare, ciascuna zona avrebbe dovuto avere alcuni servizi fondamentali in proprio tra cui almeno l’asilo nido; le scuole materne, elementari e medie; un centro medico-psico-pedagogico al servizio delle scuole; un centro di servizio sanitario con annesso consultorio; un centro sociale con servizio sociale professionale; un centro di iniziativa culturale con biblioteca; un centro commerciale; una farmacia; l’ufficio postale; un nucleo elementare di verde pubblico; impianti sportivi e ricreativi. La frazione, come si esprime il documento, è così concepita come uno “standard sociale”. In questo senso va anche il successivo Regolamento per l’istituzione ed il funzionamento dei consigli di quartiere, che riconosce all’assemblea di quartiere la capacità di sviluppare “forme nuove di gestione dei servizi e delle strutture pubbliche esistenti nel quartiere e promuove la gestione sociale dei vari momenti in cui si articola la vita del quartiere”.
Comunità, origine, funzionamento
Comunità: origine e funzionamento
Già Tacito ricordava Novara, assieme a Ivrea e a Milano, quale firmissimum municipium della Gallia transpadana. In età tardo-antica Novara è descritta come modica civitas, accanto a tanti altri pagi, vici e castella presenti nel Novarese [Cracco-Ruggini; Scuderi]. Nell’Alto Medioevo si va formando un gruppo di cives che diventa progressivamente autonomo rispetto alla signoria episcopale a partire almeno dall’XI secolo. Tra XI e XII secolo la città è strutturata in vicinie, ovvero associazioni di famiglie originarie del vicus aventi personalità collettiva [Cognasso, p. 118]. La nascita ufficiale del comune di Novara resta però nell’ombra. Il primo incunabolo del comune è del 27/7/1139, e ci mostra un governo retto da consoli appartenenti a otto diverse famiglie (Brusati, Giudice, Tornielli, Capra, Malastropa, Cavallazzi, Mussi, Goricio). Negli anni successivi, la canonica di S. Maria appare in netto contrasto con il comune, i cui consoli ambivano a controllarne i redditi.
La lotta condotta dalla Lega lombarda contro il potere imperiale nella seconda metà del XII secolo aveva irrobustito i comuni e così era successo anche a Novara a danno del vescovo, che pur rimaneva formalmente il signore della città. Quando nel 1167 Novara aveva aderito alla lega [Rusconi], il vescovo era stato chiamato assieme ai consoli per discutere l’alleanza, ma si dimise dall’episcopio nel 1170, non da ultimo poiché poco prima la città aveva aggredito e distrutto il castello di Biandrate, alleato del vescovo. Il riconoscimento fatto a Costanza da Federico I dei comuni lombardi, cui venivano attribuite facoltà giurisdizionali, legislative e la proprietà di regalia, aveva certo provocato anche a Novara una più accentuata separazione tra vescovo e comune. I primi anni del Duecento vedono uno scontro molto duro tra vescovo e città, che non intaccava però la capacità di autogoverno raggiunta da quest’ultima.
Verso la fine del XII secolo il consolato si era differenziato in due parti, a seconda delle mansioni svolte: i consules maiores, che si occupavano della politica interna del comune ed erano chiamati anche consules de comuni; ed i consules minores, detti de iustitia poiché si occupavano appunto dell’amministrazione della giustizia [Cognasso, p. 169]. Accanto a questi, e con un ruolo più informale ma comunque presente nella politica cittadina (tanto che nel 1199 parteciparono al trattato tra Novara e Vercelli) stavano i consules Paracticorum, cioè i rappresentanti delle corporazioni novaresi. Nel 1199 sappiamo dell’esistenza dei paratici dei calzolai, dei macellai, dei negozianti e dei pellicciai, mentre al XIII secolo rimonta la nascita dei paratici dei notai, dei tessitori, dei fabbri e dei salumieri.
A partire dall’inizio del Duecento, nel governo del comune ai consoli subentra il podestà, a fianco del quale continuano comunque ad agire i consules de iustitia. Dal 1210 in poi si ha una serie continua di podestà al governo, interrotta solo di rado dai consolati; nella seconda parte del Duecento il potere del podestà pare ormai indiscusso. La sua elezione avviene in seno al Consiglio generale della città, da cui si estraggono a sorte 24 elettori, che si riuniscono nella camera del comune ed eleggono il podestà a maggioranza. Solitamente, il podestà proveniva da una città amica e non di rado essi erano professionisti della podesteria, in maggior parte giuristi provenienti da Bologna. Terminata la sua carica, il podestà doveva rimanere otto giorni in città con la sua famiglia per rispondere a tutti gli uomini di Novara e della sua giurisdizione, che potevano intentargli causa. Accanto al podestà stava il Collegium iudicum, che comprendeva uomini di legge novaresi cui il podestà poteva far ricorso per avere consiglio (gli statuti del 1277 elencano ben 39 di questi iudices), chiamati anche sapientes.
Accanto alla figura del podestà, gli statuti del 1277 nominano poi altre cariche minori del comune, fra cui i quattro notai comunali (notarii palacii), eletti a sorte nel Consiglio generale, fra cui uno di essi con compiti più importanti denominato dictator; i servientes o sergenti comunali, cui spettavano le ambascerie; i tre procuratori, che avevano il compito di registrare le spese fatte dal comune, ed erano eletti uno per ciascuna classe in cui era suddivisa la popolazione (milites, cioè nobili; paratici, cioè rappresentanti delle professioni; de medio, cioè i giudici [De Regibus]). Vi erano poi il massario, responsabile della finanza cittadina, e i due canevari, cui spettava compiere i pagamenti per conto del comune (erano gli unici a poter maneggiare denaro pubblico) e che erano scelti in genere tra il clero regolare. Infine, il podestà doveva nominare sedici uomini, in ragione di quattro per ciascun quartiere cittadino, che avevano il compito di redigere il bilancio del comune. Esisteva anche un’istituzione con il compito di “sindacare” il podestà, i tre examinatores, che verificavano l’attività di tutti i funzionari comunali nei sei mesi trascorsi, ed erano eletti anch’essi uno a testa dalle tre classi cittadini.
Per quanto riguarda la giustizia, le cause civili spettavano ai consules de iustitia mentre il podestà si occupava della cause d’appello e del criminale. Il vescovo, che poteva dirimere prima del 1277 alcune tipologie di controversia per mezzo del duello giudiziario (in virtù di diritti assegnatigli dai diplomi imperiali) si vede tolta questa facoltà, che gli statuti assegnano invece al podestà [Pedrazzoli]. Bisogna inoltre almeno far cenno all’importanza che i paratici avevano in questo periodo nella gestione della giustizia interna alle fraglie.
L’assemblea comunale era formata dalla publica concio di tutti i capi famiglia della città e dei sobborghi, riunita al suono di tromba ogni qual volta il podestà doveva emanare leggi e statuti, che l’assemblea aveva il compito di approvare (un ruolo che però, come è stato sottolineato, era più che altro passivo [Cognasso; Pedrazzoli]). Esistevano poi due altri consessi “minori”, il Consilium maius o generale e il Consilium privatum (di cui nulla si sa per quest’epoca). Il primo era formato da 251 membri, equamente distribuiti fra i tre ordini della popolazione, di cui 200 membri erano eletti per sorteggio e 51 dal podestà. A sua volta, dal consiglio venivano estratti a sorte i 24 elettori del podestà. Dal consiglio uscivano anche i podestà delle terre sottoposte alla giurisdizione cittadina, estratti a sorte tra i suoi componenti. Inoltre, il parere del consiglio su eventuali nuovi statuti preparati dal podestà era vincolante. Gli statuti del 1277 prescrivevano che del consiglio non potessero far parte due membri della stessa famiglia.
Nel periodo visconteo, il podestà diventa un ufficiale dipendente direttamente dal signore (solo formalmente era ancora eletto dal consiglio), non di rado estratto dalla sua cerchia di familiari, ha compiti soprattutto di sorveglianza del territorio ed è a capo della milizia cittadina. Il Consiglio generale o di credenza è ora composto da 200 cittadini e da 25 nobili o cives residenti nel districtus, cioè extra civitatem e il Consiglio privato da 60. In questo periodo emergono inoltre le prime restrizioni per l’accesso alle cariche: gli statuti del 1338 prescrivono che per poter accedere al consolato di giustizia occorreva non essere né figli naturali né “artisti”, cioè artigiani (fatti salvi i venditori di spezie). I notai del comune diventano cinque, e come canevari non vengono più eletti dei frati ma due funzionari a scelta del podestà e dei sapientes. Le finanze comunali sono affidate a otto ragionati in carica per tre mesi. Fra gli ufficiali comunali compare il superstes, che aveva il compito di vigilare sugli affari pubblici e in particolare su ponti e strade. L’amministrazione della giustizia è simile al periodo comunale, ma ora si ammette la possibilità di fare appello alla sentenza del podestà facendo ricorso direttamente al signore [Pedrazzoli].
Gli statuti sforzeschi del 17/11/1460 riducono il Consiglio maggiore a 60 membri, le cui sedute sarebbero state valide con un minimo di 24, e fissano ad un anno la durata massima dell’incarico. Praticamente, però, la carica divenne vitalizia tra Quattro e Cinquecento. Contemporaneamente, gli statuti sopprimono i paratici cittadini, che in precedenza avevano svolto un ruolo politico e di rappresentanza della città di grande importanza.
Accanto al Consiglio dei sessanta vi era un Consiglio minore (detto “privato” in epoca comunale e sforzesca) formato da 15 consiglieri, scelti a sorte ogni tre mesi fra i decurioni del Consiglio maggiore. Vi erano poi ancora 12 consoli di giustizia che si occupavano delle cause civili, che ruotavano anch’essi ogni tre mesi, scelti all’interno di un paniere di 48 uomini proposti a inizio anno dal Consiglio maggiore.
In epoca spagnola, il Consiglio dei sessanta venne riformato con gli Ordini da osservarsi nel magnifico Consiglio della città di Novara, emanati il 10 giugno 1558 con l’approvazione di Ottavio Farnese [Rabozzi, Lotte in Novara] e redatti da una commissione formata da otto nobili, tre dottori in legge e “cinque de panni corti” (rappresentanti del “popolo”).
Gli ordini sanciscono nella sostanza l’ereditarietà della carica di consigliere (la “voce”), prescrivendo che ogni consigliere dovesse “deputare un sostituto per instromento della medesima parentella”, il quale sarebbe poi diventato l’erede della voce. Si decideva d’istituire dentro la sala consiliare una cassetta per le denunce anonime e si prendeva l’impegno di non vendere né acquistare cariche (che fu però disatteso con l’uso di alcuni cavilli). Il Consiglio maggiore eleggeva una serie di importanti funzionari: due Collaterali delle vettovaglie, che regolavano l’annona, due Collaterali delle strade, due stimatori pubblici, due sindaci per gli affari giornalieri, due merzari del pane e due della carne.
Nel Cinque-Seicento assistiamo però ad un’erosione del potere delle famiglie decurionali, secondo due direttrici in realtà opposte. Da una parte, ciò avvenne parzialmente attraverso l’avanzata di homines novi, che tentavano di impadronirsi della voce per vie traverse, comprando il titolo o tramite politiche di alleanze matrimoniali. Dall’altra, però, fu soprattutto la progressiva “rarefazione” del potere, avvenuta attraverso meccanismi informali, a rendere più labile la compattezza dei decurioni. Come lamenta nella sua relazione l’Anguissola, inviato dei Farnese a Novara, all’interno del consiglio “alcuni ne hanno più d’una [voce], secondo che ne hanno fatto acquisto in qual si voglia modo, et questi accomodano le loro voci a chi ad essi pare et piace, et quando vogliono, et però non è maraviglia se quello consilio è governato da tre o quattro soli perché gli altri, entrandovi a questo modo, sono per la maggior parte atti più tosto ad ogni altra cosa, ch’a simile governo”. Di conseguenza, questi pochi “usurpano l’auttorità del consiglio intero, fanno fuori di Consilio quello che vogliono, et poi lo fanno confirmare da Consiglio, et questo procede per puoter stabilire quello ch’a loro pare”. Il potere esercitato attraverso il controllo delle voci finiva dunque per escludere in realtà “molti cittadini di famiglie nobilissime, saggi et richi più che non è la metà di quello Consiglio unita, come è Giovanni Battista Caccia et altri, non havendo voce in quello Consilio” [Parma, Anguissola, pp. 319-320].
Si produsse in questo periodo anche la chiusura in senso oligarchico di due altre antiche istituzioni cittadine. Anzitutto, furono modificati gli statuti, che erano stati in precedenza confermati da Francesco Sforza nel 1481, del Collegium Dominorum Philosophiae ac Medicinae Doctorum, i quali prevedevano che per essere ammessi al collegio bastava aver studiato in un qualsiasi Studium generale. Con la riforma firmata da Ottavio Farnese l’11 settembre 1557 si impediva l’ingresso al collegio a coloro che non erano oriundi di Novara, che non erano parte di una famiglia nobile da almeno settant’anni e che avessero esercitato una qualche arte vile. Filippo II confermò le aggiunte agli statuti del collegio il 28 aprile 1570 [Rabozzi]. Seguirono altre modifiche degli statuti ancora più restrittive: a fine Cinquecento per fare parte del collegio occorreva che la propria famiglia fosse nobile da almeno cento anni.
Tra 1570 e 1574 venne riformato anche il Collegium Iudicum, il collegio dei dottori di legge, da cui usciva nel periodo spagnolo una figura di grande importanza e prestigio come l’oratore cittadino, cioè il rappresentante di Novara a Milano, che tutelava la città in quanto “corpo” presso il Centro (era l’analogo del Sindaco dei contadi). Con la riforma si ammettevano a farne parte soltanto i figli legittimi di famiglia nobile da almeno cento anni, che non esercitava arte vile da almeno tre generazioni, che contribuiva all’estimo cittadino da almeno quarant’anni, e la cui parentela aveva avuto un rappresentante nel Consiglio maggiore [Statuta Venerandi Collegii D.D. Iudicum Civitatis Novariae].
Sempre nel 1574 la chiusura oligarchica prende corpo anche sotto un’altra forma, ovvero con l’emanazione da parte del Consiglio di una legge suntuaria, la Pragmatica circa vestitum, convivia et funeralia, il cui testo non ci è rimasto. Sappiamo però che la legge intendeva differenziare il comportamento dei nobili da quello dei cittadini comuni in materia di lusso. Essa suscitò tali proteste in città da provocare un ripensamento da parte dei decurioni, che ne trasmisero il testo al Senato milanese corredato da un loro parere sfavorevole. Il Senato però l’approvò, e dovette intervenire il podestà per abrogare la legge [Lizier, Di un tentativo].
Le disposizioni del Senato dell’11/5/1606 confermavano gli ordini di riforma del Consiglio del 1586, ma li razionalizzavano facendo scomparire la figura del “sostituto”, pur rispettando la forma oligarchica del consiglio. I membri attuali erano considerati vitalizi, mentre per le nuove elezioni il Consiglio doveva scegliere tre persone dotate dei requisiti richiesti che avessero più di 25 anni, e quindi procedere a suffragio segreto alla scelta di uno di essi. Ciò significava in pratica che al momento in cui un seggio diventava vacante si sceglievano all’interno della stessa parentela tre nominativi su cui poi il consiglio conduceva votazione segreta.
Il 29 agosto del 1606 nasceva anche l’Università dei mercanti, formata da 12 consiglieri eletti da una congregazione generale di tutti i mercanti e artefici, che tenne la sua prima riunione il 30 ottobre dello stesso anno. Essa era nata sull’onda lunga dell’estimo di Carlo V, che aveva introdotto il mercimonio, cioè la tassa sui commerci, che doveva essere corrisposta dai mercanti in relazione al loro giro d’affari [Sella; Vigo, Fisco e società]. Il mercimonio figurava all’interno dei vari corpi (città e contadi) come una parte del loro estimo generale, ed erano essi che dovevano riscuoterlo presso i mercanti. Il consiglio cittadino aveva però deciso di addossare interamente ai mercanti la responsabilità della tassa, rendendo noto che non intendeva riscuoterla come altrove accadeva nello Stato. La questione non era di poco conto, poiché in caso di mancata esazione la responsabilità in solidum avrebbe gravato sul corpo fiscale che gestiva la riscossione, scatenando così i meccanismi di prelievo forzato da parte dello Stato. Il Magistrato ordinario diede ragione al consiglio e nell’estimo separò dalla città i mercanti, cui quindi sarebbe toccata la responsabilità collettiva del mercimonio. I mercanti si auto-organizzarono dunque in università, allo scopo di gestire l’esazione della tassa. In tal senso, l’Università dei mercanti novarese si differenzia profondamente da altre istituzioni degli antichi regimi dall’analogo nome in quanto non fu né un organismo corporativo né tanto meno giudiziario, ma invece fiscale. L’8/9/1748, passato il Novarese al Regno di Sardegna, seguì però la riforma del mercimonio, che venne unito all’estimo civile e passò sotto l’amministrazione cittadina (che divenne dunque responsabile in solidum del tributo).
Nel Seicento furono fatti anche ulteriori “ritocchi” alle istituzioni cittadine. Filippo IV interveniva il 19/4/1649 sui consoli di giustizia, da cui “molti abusi vengono fatti”, imponendo che su richiesta di una delle due parti in lite si potessero portare le scritture a un membro del collegio dei dottori di Novara, in qualità di “assessore” [ASN, Comune, busta 6]. Il 13/1/1651 si produce un’ulteriore chiusura del consiglio, originata dall’ammissione in esso di Costanzo Morbio (per morte di Gio. Paolo Tettoni senza successori) “senza farli fare la prova dovuta della nobiltà conforme alli ordini”. Si stabiliva invece che in futuro per entrare nel consiglio decurionale sarebbero valse le medesime regole per l’ingresso nel Collegio dei dottori, che erano ancora più restrittive. Per recuperare le prove erano utilizzati commissari che andavano ad assumere informazioni a casa del candidato che chiedeva la voce, commissari che a partire dal 1680 si recavano anche “ad altre case a spese però del petente” [ordinato del 31/1/1680, ASN, Comune, busta 6].
Anche sotto le successive dominazioni, austriaca e sabauda, Novara fu retta secondo gli statuti del 1460 integrati dalle disposizioni del 1586 e del 1606. Particolare fu il processo di riforma sotto i Savoia. Nel 1770 vi è la promulgazione delle nuove costituzioni di Carlo Emanuele III e il 6/6/1775 Vittorio Amedeo III emana il Regolamento dei pubblici, che riforma le amministrazioni locali. Novara venne però risparmiata dal regolamento, ed il re emise speciali patenti relative alla città il 4/9/1775 [Regie patenti, colle quali S.M. concede e conferma alla città di Novara alcune particolari prerogative per la forma, autorità e facoltà del di lei Consiglio civico, e per l’amministrazione delle di lei rendite, ASN, Comune, busta 7; Petracchi; Ricuperati, Lo Stato e una provincia], con le quali lasciava in vita il decurionato, ma ne limitava la presenza nella vita politica cittadina. Il Consiglio venne ridotto a 20 membri, comprensivi di due sindaci e sei ragionieri, e suddiviso al suo interno in due classi di nobili e cittadini facoltosi. Tutti i consiglieri dovevano, comunque, “essere nativi della città, o stabilmente abitanti in essa dopo dieci anni, e avere […] un competente patrimonio in città o nel territorio”. Era inoltre previsto un turnover poiché “niuno potrà stare più di cinque anni in Consiglio, né rientrarvi se non dopo tre anni compiti, né tenere due uffizi ad un tempo né avere più d’una volta nel triennio il medesimo uffizio”. La prima classe, formata dai nobili, si riuniva in suoi consigli a sé stanti (di cui sono rimasti i verbali). Per le successioni nella voce era previsto che mancando la linea diretta subentrassero soggetti che potevano provare la discendenza da famiglia consiliare per via mascolina, mentre quelli che non avevano antenati nobili dovevano chiedere una declaratoria di nobiltà al Magistrato della camera. Tra i decurioni venivano scelti anche i due provveditori deputati al controllo sul commercio cittadino, “o sieno giudici di pulizia, i quali dovranno soprintendere a mercati, alle fiere, a macelli, alle panetterie, al prezzo, giusto peso e bontà di commestibili, e provvedere tutto quel che concerne i capitoli e bandi politici, e campestri”.
I membri della seconda classe erano scelti la prima volta dal re, mentre in seguito l’elezione doveva avvenire a voti comuni, da parte cioè di entrambe le classi. La presenza nel consiglio cittadino di membri non provenienti dalla nobiltà spezzava comunque dopo vari secoli l’egemonia vantata dalle famiglie decurionali, che pur rimanevano in una posizione di preminenza.
Nel 1798 le truppe napoleoniche impiantavano una municipalità provvisoria formata da cinque borghesi simpatizzanti del governo francese. Nel luglio del 1800 venne organizzata una nuova municipalità, composta da cinque membri, di cui uno era il presidente. Novara diventava nel frattempo capoluogo del Dipartimento dell’Agogna. Il decreto del 6/5/1802, che introduceva le prefetture, riformava anche le comunità. I comuni “furono divisi in tre classi: dove la popolazione era superiore ai 10.000 abitanti la Municipalità era eletta dal Consiglio di 40 membri, in numero variabile da sette a otto cittadini; da cinque a sette nei comuni tra i 3 e i 7.000 abitanti, dove il Consiglio era di 30 membri; di tre in quelli inferiori ai 3.000 abitanti. Nell’Agogna solo Novara ebbe un consiglio di 40 membri” [Cognasso, pp. 473-4].
Nel 1814, tornati al potere i Savoia, si applicò anche a Novara il regolamento dei pubblici del 6/6/1775, in forza del quale il Consiglio era composto da sei consiglieri di prima classe (nobili) e sei di seconda (civili) e presieduto da due sindaci, di cui uno nobile e l’altro borghese. In seguito a violenti contrasti sorti tra i consiglieri della classe civile e il corpo decurionale, il 29/1/1834 Carlo Alberto emanava alcuni provvedimenti per la risoluzione delle contestazioni stabilendo esplicitamente che “in difetto di soggetti eligibili nel seno del corpo decurionale, potrà esso anche scegliere agli uffici municipali riservati alla classe nobile delle persone nobili estranee al corpo decurionale”, che per tale effetto erano ammessi a quest’ultimo [Regie patenti colle quali sua Maestà dà alcuni provvedimenti per la risoluzione delle contestazioni elevatesi tra il Corpo decurionale di Novara e la Classe Civile del Civico Consiglio, ASN, Comune, busta 7]. Era l’esplicito riconoscimento, da parte dei decurioni, di non essere più un corpo chiuso. Il regio viglietto del 21/10/1837 limitava poi la facoltà dei decurioni di farsi rappresentare nelle adunanze tramite procure (vista la degenerazione di questa pratica), imponendo che “una o tutt’al più due sole procure potranno essere conferite in capo dello stesso decurione”, tramite un atto formalmente redatto da notaio [Regio biglietto col quale Sua Maestà dà alcuni provvedimenti intorno alle adunanze del nobile Corpo decurionale della città di Novara, ASN, Comune, busta 7].
La legge promulgata da Carlo Alberto il 7/10/1848 trasformava nuovamente il sistema di governo dei comuni, ivi compreso quello di Novara. Anzitutto, fu creato un nuovo corpo di cittadini novaresi abili all’elezione del consiglio comunale; su 21.000 abitanti si riuscì a creare un corpo elettorale formato da appena 538 persone. Gli elettori erano i maschi maggiorenni che rientravano tra i maggiori proprietari immobiliari, gli impiegati statali anche in pensione, i professionisti, i laureati, i commercianti, gli industriali, gli imprenditori con tenore di vita civile, i maggiori fittabili, i militari e i civili decorati. Il Consiglio comunale era composto da 40 membri e presieduto da un sindaco di nomina regia, scelto tra i consiglieri ed assistito da una giunta di sei membri. Il sindaco durava in carica per tre anni, eventualmente rinnovabili, ed espletava di fatto una duplice funzione, “essendo nel contempo capo dell’amministrazione comunale ed ufficiale di governo” [Battisti, p. 342]. In questa seconda veste, svolgeva importanti funzioni di polizia generale. Per la prima volta dal Medioevo, dunque, l’aristocrazia di nascita, erede dell’antico ceto decurionale, vedeva nel 1848 esplicitamente negata la sua presenza in consiglio in quanto corpo.
La legge Rattazzi del 23/10/1859, poi rimasta in vigore anche dopo l’Unità, ampliava la classe degli elettori, includendovi tutti i maschi maggiorenni che godevano dei diritti civili e pagavano le tasse nel comune in cui votavano. Così facendo, il corpo elettorale di Novara nel 1860 constava di 1.150 elettori. Il Consiglio comunale fu ridotto a 30 membri, e suo organo esecutivo diventava la Giunta municipale, eletta all’interno del consiglio. Il ruolo del sindaco veniva così sfumato rispetto al precedente ordinamento, avendo funzioni di governo condivise con la giunta e non essendo più funzionario governativo. Parallelamente, venivano assegnati compiti di controllo sul comune alla Deputazione provinciale, organo esecutivo del Consiglio provinciale.
Statuti
Statuti
I primi statuti sono del 1277, rivisti nel 1284. Essi rispecchiano il carattere podestarile assunto dal comune in questo periodo storico. Si decise di redarre tre copie, una da mettersi sulla mensola del palazzo legata con una catena e disponibile per tutti, una presso il podestà e una nel cofano delle quattro chiavi.
Gli statuti furono poi rivisti nel 1338 sotto Giovanni Visconti, da Galeazzo Visconti nel 1360 e soprattutto da Francesco Sforza il 17/11/1460 [Cognasso, p. 367; Lizier, Gli statuti novaresi].
In archivio di Stato sono presenti edizioni degli statuti del 24/10/1511, stampati a Milano da Giovanni Castiglioni (libri I-V) e il libro VI degli statuti stampato nel 1562 presso il tipografo cittadino Sesalli. Sono presenti poi alcune sentenze del Senato milanese che modificano punti secondari degli statuti, come quella del 9/11/1618 “portante amplificazione degli statuti di Novara nella parte riguardante la vendita delle carni e le pene ai contravventori” o del 27/2/1652 che si possa proibire la trebellionica (legittima) ai figli di primo grado. Importante è poi il commentario del 1830 degli statuti ad opera dell’avvocato Giacomo Giovannetti, assessore della prefettura sabauda e consigliere cittadino, che manca però attualmente dall’archivio [segnalato in ASN, Comune, busta 88. Per un’accurata introduzione storica e un commento alla fonte, si veda l’edizione degli Statuta civitatis Novariae fatta nel 1993].
Importanti integrazioni dello statuto erano i bandi politici o regolamenti di polizia urbana, emessi in forma copiosa a partire da metà Settecento (cfr. in particolare quello del sindicatore Fusi del 10/7/1751, ASN, Comune, busta 89).
Catasti
Catasti
In età moderna la catastazione di riferimento della città si riferisce ai tre momenti fondamentali dell’estimo di Carlo V, perlopiù compresa nel fondo del Comune, parte antica [su cui Crenna, Agli albori]; del teresiano; e del periodo sabaudo. Le serie esistenti nel fondo del Comune riguardano le disposizioni generali sull’estimo (buste 982-1001); i trasporti d’estimo (buste 1002-1027, periodo di riferimento 1580-1769); i quinternetti dell’estimo delle case (buste 1043-1047, periodo 1637-1798); i quinternetti degli stabili, dal 1550 (buste 1048-1084); l’estimo del personale, utilizzato per la tassazione capitaria (buste 1085-1101, periodo 1610-1798).
Per quanto riguarda il catasto di Carlo VI occorre far riferimento alla documentazione conservata in Archivio di Stato di Torino, anni 1722-23 e all’Archivio di Stato di Milano, in particolare i sommarioni del 1725 sui beni di prima stazione.
Per il periodo sabaudo immediatamente successivo occorre tenere anzitutto conto del vasto dibattito sulla perequazione avvenuto dopo l’annessione dei Paesi di nuovo acquisto, e che continuò per buona parte del secolo, che aveva tra i suoi principali scopi la riforma o comunque l’applicazione corretta dei catasti (materiale di riferimento in Archivio di Stato di Torino, II archiviazione, in particolare capo 13 – Paesi di Nuovo Acquisto).
In Archivio di Stato a Novara troviamo diversi sommarioni: quello cittadino del 1771 compilato da Carlo Gaudenzio Ricca; un paio relativi ai corpi santi, di cui uno di periodo austriaco del 1726 e l’altro del 1769. Per metà Ottocento si dispone dei sommarioni della città (ivi compresi i beni degli spalti prima non censiti) e di ciascun corpo santo preso singolarmente (Bicocca, S. Martino, S. Agabio, S. Andrea e Veveri oltre a Vignale con Isarno). Per il periodo post-unitario si dispone poi del catasto cittadino del 1879-81, compilato dal ragioniere Vincenzo Luini del municipio di Novara; di quello della Bicocca, degli anni 1884-87;di S. Martino (1894); di S. Agabio; di S. Andrea con Veveri; di Vignale con Isarno; e, per la prima volta, di Torrion Quartara (1874). Ognuno di questi catasti tardo-ottocenteschi è corredato da un libro di trasporti d’estimo.
Ciascuna comunità aggregata aveva, poi, un suo proprio catasto. Così è dunque per Agognate (sommarioni del 1769 e del 1770 compilato da Francesco Grollo); Casalgiate (sommarioni del 1769 e del 1770 compilato dal notaio Pietro Francesco Baldoni); Gionzana (1769 e 1770); Isarno (sommarioni del 1722, 1769, 1770); Lumellogno (sommarioni del 1770 e del 1812); Olengo (1769, 1770 compilato da Giuseppe Vigorè); Pagliate (1769, 1770 compilato da Giuseppe Gaudenzio Bono, seconda metà dell’800); Pernate (1769, 1771, 1805, 1881; è presente anche un catasto della decima dei terreni del 1817).
Ordinati
Ordinati
Gli ordinati del Consiglio comunale sono compresi tra le buste 198 (1501) e 246 (1849) del fondo Comune, parte antica, in ASN. All’interno di questo gruppo documentario sono comprese anche le deliberazioni dell’Universitas mercatorum.
Dipendenze nel Medioevo
Dipendenza nel medioevo
Fino alla fine del X secolo Novara fa parte del comitato di Pombia e almeno formalmente era sottoposta alla giurisdizione dei suoi conti, che non risiedevano però entro le mura [Montanari, Una terra tra due fiumi, p. 62; Sergi]. Dall’XI secolo Novara è sede di un dominio vescovile che si espande gradatamente nei successivi due secoli, facendo perno in particolare sulle concessioni imperiali del 1025 [v. voce diocesi]. A partire però almeno dal Duecento, il comune erode progressivamente il potere del vescovo, sottraendosi alla sua potestas.
Feudo
Feudo
Il marchesato di Novara, comprendente la città, venne infeudato da Carlo V a Pier Luigi Farnese nel 1538. L’investitura comprendeva il diritto di trasmissione ereditaria del feudo per via primogeniturale, tutti i diritti fiscali, compreso il dazio sulla mercanzia, la tratta dei gualdi e della ferrarezza e il diritto di battere moneta d’argento e d’oro [Parma, Dinamiche sociali; Parma, La corte lontana]. I Farnese tennero zecca a Novara solo per qualche anno, emettendo moneta in bronzo e argento con la scritta Novariae marchio, ma vi rinunciarono ben presto [Morandi, La zecca]. Dei diritti Carlo V assegnava ai Farnese la rendita (15.000 scudi), tenendo per sé l’esazione, che era a cura della Camera ducale milanese. Secondo la formula utilizzata, i Farnese erano investiti del feudo “mero et mixto imperio, gladii protestate et omnimoda iurisdictione tam in civilibus quam in criminalibus”, giurisdizione che era esercitata da un podestà da loro nominato. L’infeudazione fu tuttavia “debole”, non inficiando in nessun modo la sovranità territoriale spagnola. Come chiarisce il Viglio, “Dall’atto di investitura feudale […] chiaro appare che il marchesato di Novara era creato per dare una rendita al figlio di Paolo III e per mettere i confini sotto la potente tutela del Papa. Novara non cessa perciò di far parte del ducato, di pagar certi diritti alla Spagna, d’esser dominio dell’Impero; a ogni richiesta i marchesi di Novara saranno tenuti a fare rito di giuramento al Governatore dello Stato di Milano, ai duchi di Milano e ai legittimi possessori dello Stato sarà poi sempre lecito redimere il marchesato” [Viglio, Memorie novaresi, p. 172; anche Morreale, I mondi divisi; Colombo; Anselmi]. Inoltre, tra 1548 e 1556, in una fase particolarmente critica, Madrid estromise i Farnese dal feudo per governare direttamente la città.
L’infeudazione provoca però notevoli squilibri istituzionali. La questione di maggior peso riguarda il Maggior magistrato, cioè la giurisdizione sul criminale e sulle maggiori cause civili, che spettava ai Farnese non solo relativamente alla città ma all’intero marchesato. Dipendente e nominato dal Farnese era dunque il principale giusdicente cittadino (ma che aveva giurisdizione anche sulle comunità del marchesato in quanto Maggior magistrato), cioè il podestà. Il controllo dei Farnese sull’amministrazione della giustizia, teoricamente molto vasto, era però fortemente limitato dall’azione di altre magistrature, e più in generale dal peso preponderante di altri elementi del gioco politico. Anzitutto, il Capitano di giustizia milanese, “sotto pretesto ch’habbia giurisdizione in tutto il Dominio di Milano”, si poteva intromettere in tutte le cause civili e criminali [Parma, Anguissola, p. 308]. Inoltre, il Senato milanese era il magistrato d’appello dello Stato, ragion per cui i condannati dal podestà novarese potevano sempre rivolgersi ad esso in seconda istanza. In tal modo, la giurisdizione relativa ad una singola causa poteva ricadere sotto due giudici nominati da due differenti poteri politici.
Un nodo altrettanto palese di conflitto riguardava le grazie, poiché l’investitura feudale fatta da Carlo V stabiliva che spettassero al marchese di Novara, cioè ai Farnese, mentre secondo le costituzioni erano prerogativa esclusiva del Senato [Bilotto]. In secondo luogo, come lamenta nella sua relazione l’Anguissola, ambasciatore dei Farnese a Milano, anche la Regia camera fiscale interveniva in cause che, apparentemente, sarebbero dovute spettare invece al podestà. Bisogna poi tener conto di un’altra attribuzione di particolare importanza, quella cioè del Referendario (delegato “provinciale” del Magistrato ordinario e di quello straordinario, che avevano giurisdizione sulle cause fiscali dello Stato), che spettava ai Farnese. Tuttavia, la magistratura annaspava sotto l’impoverimento di funzioni (le sue cause “sono commesse ad altri giudici di questo stato” [Parma Anguissola, p. 307]) che gli imponeva la camera regia milanese, da cui il Referendario dipendeva istituzionalmente pur essendo nominato dai Farnese. Infine, il podestà non aveva pressoché nessun potere nei confronti dei militari spagnoli, che “vivono in presidio in quella Città, anzi sono divenuti tanti temerari et insolenti che oprimono gli Cittadini con fare ad essi infinite ingiurie et carichi”, ed è impossibile sottoporli alla giustizia cittadina “perché se si raccorre a Milano, la causa è rimessa all’Auditore del campo, ch’è spagnolo, et non vi fa altro” [Parma, Anguissola, p. 304].
Nel 1602 il nuovo governatore dello Stato di Milano, il Fuentes, esercitava il diritto di riscatto del feudo, esplicitamente previsto nell’investitura feudale, rimborsando in seguito ai Farnese i 225.000 scudi un tempo prestati da Paolo III a Carlo V per la sua elezione imperiale, e motivo della cessione del feudo. Anche il Fuentes aveva però grossi problemi nel far rispettare le prerogative del Maggior magistrato. Come sappiamo da una sua lettera del 1603, vi erano continue “pretensioni d’alcuni feudatari di quella giurisdizione, territorio e diocesi e distretto di Novara, di non riconoscer il Maggior magistrato di quella città […] anzi che alcuni sono proceduti sino a proibire che non siano intimati i precetti vostri ne loro feudi, et minacciare alli ufficiali”. I feudatari “non solo declinano la vostra giurisdizione ma procedono loro contro i cittadini di Novara, facendoli detenere, altri in altro modo, turbando la giurisdittione reale et eccitando gl’altri ad opporsi al maggior Magistrato” [ASN, Comune, busta 25, lettera del 13/9/1603]. Specialmente alcuni grossi borghi del contado, come Borgomanero, stavano infatti cercando per mezzo dei loro podestà di erodere la giurisdizione podestarile cittadina, come si può evincere da una sentenza senatoria del 1620 [ASN, Comune, busta 25, sentenza del 2/9/1620; cfr. anche il successivo fascicolo Civitatis Novariae pro deffensione eiusdem maioris magistratus].
Nel 1744, poco dopo il passaggio ai Savoia, l’infeudazione torna di attualità, poiché il governo intende infeudare i corpi santi della città [ASN, Comune, busta 80, ordine della Regia camera dei conti di Torino del 17/9/1744 “relativo al possesso da prendersi dalla giurisdizione di S. Maria città della Bicocca del conte Francesco Porro feudatario di essa per Regie patenti 12 maggio detto anno”; seguono le memorie della città contro l’infeudazione; Viglio, Novara contro l’infeudazione]. Il manifesto camerale del 5/3/1756 dava il via libera definitivo all’operazione, nonostante le proteste della città. La Bicocca restò infeudata ai Porro fino all’abolizione dei privilegi feudali del 1797. Seguiva l’infeudazione degli altri corpi santi: S. Agabio venne infeudato nel 1756 a Carlo Vicari [Agabio, un santo e il suo quartiere], S. Martino nel 1777 a Filiberto Buglione e acquistato da Giorgio Ponza nel 1790 (ma l’approvazione da parte del Consiglio comunale è antecedente, rimontando al 20/4/1744, cfr. ASN, Comune, 219, ordinati), S. Andrea nel 1779 a Felice Clemente Lanzavecchia.
Questi possessi durarono fino al 1797, e testimoniano di una pesante politica di infeudazione tardiva da parte del centro sabaudo, come appare chiaro anche analizzando le singole storie delle comunità aggregate a Novara in età napoleonica, in precedenza tutte infeudate. Agognate faceva parte assieme a diverse altre comunità di un feudo dei Casati dal 1467, passato per successione ai Talenti Fiorenza nel 1637 cui rimase fino al 1797. Camiano venne infeudato tardivamente, nel 1709, ai Caccia da Sizzano, fino al 1797. Casalgiate era stata infeudata nel 1483 a Luigi Terzago, è acquistata nel 1484 dalla famiglia Avogadro cui rimase fino al 1777, quando è devoluta al demanio per estinzione della linea. Nel 1780 è di nuovo infeudata a Gaspare Millo, cui rimane fino al 1797. Gionzana era stata altresì infeudata a Luigi Terzago nel 1483, acquistata da Damiano e Giulino Tettoni nel 1484, confiscata dallo Stato a Rinaldo Tettoni nel 1581, restituita nel 1611 e devoluta allo Stato nel 1640. Venne reinfeudata solo molto tardivamente, nel 1773, a Luigi Baldi, che la tenne fino al 1797. Isarno era parte di un feudo composto da Caltignaga, Codemonte e Sologno e ne seguì le sorti: infeudato nel 1449 ai Caccia da Caltignaga, fu devoluto nel 1561 e riacquistato dai Caccia da Proh nel 1588, nuovamente devoluto nel 1725 e acquistato dai Brentano nel 1725, che lo tennero fino al 1797. Lumellogno era fin da tempo immemorabile feudo del capitolo della cattedrale. Venne infeudato tardivamente, nel 1773, a Luigi Maria Bellini, fino al 1797. Olengo era stata infeudato nel 1467 a Melchiorre Tornielli, e passò via Casati nel 1637 alla famiglia Talenti Fiorenza, cui rimase fino al 1797. Pagliate era stata infeudata nel 1682 a Giulio Legnani, acquistata nel 1693 dalla famiglia Guilizzoni, devoluta nel 1773 per estinzione della linea e reinfeudata nello stesso anno a Luigi Maria Bellini fino al 1797. Vignale era stato infeudato ad Agostino Omodei nel 1647, confiscato alla famiglia nel 1717, reinfeudato nello stesso anno a Giambattista Modignani, e confluito poi nel 1727 per successione ereditaria nella famiglia Della Porta Modignani. Nel 1756 figura infeudato a Giambattista Perona e nel 1764 a Pierpaolo Pinchia che l’aveva acquistato dal Perona. Pernate, infine, risulta infeudata la prima volta alla famiglia Viscardi nel 1480, acquistata da Giovanni Battista Piotti nel 1563, e devoluta nel 1721 per estinzione della linea. Nello stesso anno, la comunità chiedeva la redenzione onerosa allo Stato, che gliela concesse nonostante l’opposizione della famiglia Martelli e di altri pretendenti al feudo [Dessilani]. Seguiva infatti sentenza del Magistrato Straordinario del 28/5/1726 “con cui dichiara che Marco Martelli e li suoi colleghi oppositori alla redenzione del feudo sono tenuti a concorrere pro rata al pagamento delle somme sborsate […] per una tale redenzione”, [ASN, Comune, 80].
Mutamenti di distrettuazione
Mutamenti di distrettuazione
Nel 1535 il Novarese entra a far parte dello Stato di Milano, chiamato anche “Lombardia spagnola”. La città vi figurava come corpo fiscale staccato dal resto della provincia, in base al peculiare sistema milanese che considerava contado e città due istituzioni distinte.
Nel 1714 il Novarese passò all’Austria, nel 1738 è annesso allo Stato sabaudo [Salotto]. Al suo interno, Novara figura a capo di un’intendenza comprensiva del Vigevanasco e dell’Alto e Basso Novarese [Capris; Ricuperati, Lo Stato sabaudo; Silengo, Il Novarese; Raviola]. Il 17 frimaio del 1798 (6/12/1798) le truppe napoleoniche occuparono Novara. Nel 1799-1800 vi fu la breve parentesi dell’occupazione austro-russa. Nel maggio del 1800 tornarono al potere i napoleonici. Il 7 settembre 1800 un decreto di Napoleone istituiva il Dipartimento dell’Agogna, con confine sul Sesia, che aveva come capoluogo proprio Novara. Il Novarese entra così a far parte del Regno d’Italia con capitale Milano, mentre il resto del Piemonte è incorporato nell’impero francese. La legge del 25 fiorile anno IX (13/5/1801) riorganizzava i dipartimenti; quello dell’Agogna comprendeva cinque distretti: Novara, Vigevano, Domodossola, Arona, Varallo Sesia. Il distretto di cui era a capo Novara comprendeva a sua volta i cantoni di Oleggio, Robbio, Biandrate e Borgomanero. Il 6/5/1802 un altro decreto istituiva le prefetture. Novara era a capo della prefettura dell’Agogna, alla cui guida stava un prefetto di nomina governativa, coadiuvato da due luogotenenti e da un Consiglio di prefettura di cinque membri [Cognasso, p. 469].
Nel 1814 si ha il ritorno al potere dei Savoia. L’11 maggio vengono reintrodotte le Regie costituzioni del 1770 su tutto il territorio. La maglia amministrativa è riorganizzata con il regio editto del 10/11/1818, che dà vita a una suddivisione in divisioni, province, mandamenti e comunità. Novara figura a capo di una divisione, con amministrazione civile e militare, più vasta del precedente dipartimento napoleonico, comprendente le province di Novara, Lomellina, Ossola, Pallanza, Valsesia e Vercelli. Per il militare la divisione era capeggiata da un governatore, per il civile da un intendente generale. Seguì un rimaneggiamento della circoscrizione con le Regie patenti del 10/12/1836, con le quali le province di Ossola e Valsesia furono soppresse. La provincia di Novara cedeva a Vercelli i mandamenti di Biandrate e Borgo Vercelli e riceveva quelli di Varallo, Arona e Omegna.
Dal 1859, Novara viene a far parte dell’Italia unita. La legge comunale e provinciale del 23/10/1859, poi legge del Regno l’1/3/1861 faceva di Novara capoluogo di una provincia che comprendeva Vercelli e Biella (una delle quattro del Piemonte). La “legge Rattazzi” prevedeva che la provincia fosse guidata da un governatore dipendente in linea diretta dal ministro dell’interno, coadiuvato da un vice-governatore e da un consiglio provinciale di nomina governativa, che espletava le funzioni di giudice amministrativo. Col regio decreto n. 250 del 1860 il governatore cambiò nome in prefetto, con una chiara ascendenza di stampo francese. Bisogna comunque sottolineare come i vari ministeri avessero proprie istituzioni ai vari livelli locali (mandamenti, province, circondari), su cui il prefetto non aveva potere se non come coordinatore, il che poneva un evidente problema di frammentazione.
Il decreto legge fascista del 2 gennaio 1927 creava la provincia di Vercelli scorporandola da quella di Novara, che perdeva così la Valsesia (rimasta invece all’interno della diocesi novarese). Il 30/4/1992, infine, il decreto legge n. 277 istituiva la provincia di Verbano Cusio Ossola, anch’essa sottratta al territorio prima capeggiato da Novara.
Mutamenti Territoriali
In seguito al regolamento dei pubblici del 1775, Novara perdeva l’estimo civile che “censiva […] gran parte della intiera provincia, e per tal guisa coadiuvata [la città] trovavasi in grado di sostenere le maggiori spese che generalmente incombono al capo luogo di una provincia estesa” [ASN, Comune, busta 87, fasc. 10, missiva del 24/6/1818 dei deputati cittadini a Massimino Ceva presidente del Consiglio delle Finanze]. Nel 1777 la città otteneva l’aggregazione di Vignale e Camiano, che riteneva però insufficienti per aumentare le sue entrate.
In età napoleonica, con decreto del 26/11/1808, Novara otteneva l’aggregazione di Agognate, Casalgiate, Gionzana e Isarno. Il 25/8/1809 un nuovo decreto le assegnava anche Pernate assieme alle piccole frazioni di Riotta, Riottina e Cascina Baraggia, Olengo e l’intero circondario formato da Lumellogno, Pagliate e Torrione Balducco. Tutti questi centri avevano una loro parrocchia, tranne Torrione Balducco che dipendeva dalla parrocchiale di Cameriano.
La formazione del circondario del comune era successiva ad un lungo dibattito tra il prefetto dell’Agogna e le varie comuni, a cui il potere centrale aveva domandato un parere sull’aggregazione. Le situazioni erano spesso intricate. Isarno, ad esempio, aveva da poco inglobato con la legge 11 brumale dell’anno IX la comune di Vignale, che continuava però a pagare i carichi con Novara, cui era in precedenza unita [ASN, Prefettura dell’Agogna, 551, Novara, 10/1/1804, lettera del comune al Ministero dell’Interno].
Cameriano, in una sua missiva al cancelliere censuario di Novara del 9/11/1807, spiegava che voleva aggregare Torrione Balducco al suo circondario, “perché ritenuta l’unità della parrocchia con Cameriano varrebbe una tale aggregazione a rendere più facile e meno incomodda la tenuta di registri dello stato civile, mediante la corrispondenza tra l’ufficiale incaricato ed il proprio parroco” [ASN, Prefettura dell’Agogna, 551].
Olengo, per suo conto, faceva presente di avere una “propria parrocchia, che non si estende ad altri comuni” ed un suo catasto, e quindi di voler rimanere autonoma. Dai processetti preparatori per il catasto di Carlo VI emerge che Olengo non solo non era mai stato unito ad altro comune, ma che recentemente “hanno avuta la sua separazione di quota […] la Cassina Cavalota, posseduta da Gaetano Cavaloto, e la Cassina detta Baragia posseduta dal Marchese Fiorenza”. Le due cassine “fanno comune da sé perché pagano a parte la lor contingente porzione de carichi, per altro non hanno console e per lo spirituale sono sotto la nostra parochia” [ASM, Confini parti cedute, busta 37 fasc. 13, interrogatio del 9/8/1723 di Carlo Fedele, console della comunità].
Nel 1807 Olengo caldeggiava l’aggregazione con Garbagna: “L’immediato contatto del territorio di Ollengo con quello di Garbagna, la comunicazione tra rispettivi abitanti massime pel titolo di agricoltura derivante dalla circostanza che quasi tutti i primi estimati di Garbagna possiedono anche sulle fini d’Ollengo, e così viceversa, fa sì che tra queste due popolazioni havvi la massima relazione per commercio, per industria, ed uniformità d’abitudini. Da tutto ciò ne deriva che quando non possa alla comune d’Ollengo di rimanere sola il di lei interesse consiglia esclusivamente l’aggregazione a quella di Garbagna” [8/11/1807, il sindaco della comune di Olengo al cancelliere censuario di Novara, ASN, Prefettura dell’Agogna, 551]. Invece, in un primo momento Olengo venne considerata autonoma e nel 1809 aggregata al circondario di Novara.
Anche dopo l’unità si ebbero delle turbolenze, in particolar modo da parte di Pernate, che il 17/8/1868 con un memoriale diretto alla provincia chiese di poter ridiventare comune autonomo. La domanda veniva rifiutata in consiglio comunale poiché “la frazione di Pernate non ha una popolazione di 4.000 abitanti”, nonostante il comune di Novara facesse notare che si trattava di un’operazione conveniente, “poiché verrebbe alleggerito di spese, che superano le entrate di quella frazione”. Le entrate provenienti da Pernate non bastavano infatti a coprire le spese di quel territorio, rendendo necessaria una compensazione da parte del comune [ASN, Comune parte moderna, 334; Bozzola].
Comunanze
Tra la fine del XII secolo e l’inizio del successivo, il comune era diventato titolare di un cospicuo patrimonio, su cui si accesero aspri conflitti con il vescovo, che vantava probabilmente su di essi un dominio eminente di origine imperiale, come nel caso della Baraggia. Su questi terreni comunali era attestata la diffusione di usi civici. Tuttavia, già a metà secolo i comunia erano diventati piuttosto scarsi, a causa della politica di dismissioni del comune che aveva necessità di ripianare le proprie difficoltà finanziarie [Rao, pp. 60-66; 197-198].
Negli statuti del 1277 si stabilisce l’obbligo del podestà di aperire et aperta tenere comunia locorum a richiesta. In seguito vennero emanate disposizioni più particolareggiate, che testimoniano della protezione accordata dalla comunità alle terre comunali: il podestà doveva entro due mesi, a richiesta di qualsiasi richiedente, eleggere quattro uomini per ciascun quartiere che dessero per iscritto l’elenco di tutte le terre comune usurpate, che poi il podestà avrebbe fatto aprire e mettere in comune se l’occupante non avesse dimostrato il suo possesso.
In età moderna, il grande cambiamento urbanistico di Novara produce un nuovo territorio, gli “spalti”, di proprietà demaniale, affittati alla città e ad alcuni privati dallo Stato. Dopo un progetto a quanto pare non realizzato di affitto perpetuo degli spalti alla città, quest’ultima li acquistò per 120.000 lire in via definitiva il 28/8/1813, e da allora provvide ad incantarli in prima persona [ASN, Comune, 261]. Nel 1859, i terreni comunali consistevano ormai quasi solo negli spalti, che assommavano in tutto a 42,84 ettari per 62.000 lire di valor capitale [ASN, Comune parte moderna, 334].
Solo occasionalmente e per motivi particolari, la città si trovò a essere proprietaria di altri terreni che non fossero quelli compresi negli spalti. Si può citare in proposito il caso delle cascine Rosalla e Guascona in territorio di Sozzago, di proprietà la prima dei signori Cicogna e l’altra del conte Gera, che per tasse non pagate passarono in un primo momento alla congregazione degli interessati milanesi e quindi alla città, la quale le alienò però nel 1742 [ASN, Comune, 249]; oppure, sempre a questo riguardo, l’acquisto fatto per 1.000 lire dallo Stato del monastero e chiesa di S. Gerolamo nel sobborgo di S. Andrea, da poco diventato demaniale, al fine di costruirvi un pubblico cimitero “per rendere più salubre l’aria della città, unico motivo pel quale S.M. si è degnata di passare dalla suddetta vendita a così tenue prezzo” [ASN, Comune, 269, 13/6/1782].
La città era poi proprietaria di vari stabili, per un totale di 456.700 lire di valor capitale nel 1859. A questa data, figuravano in capo alla città il palazzo pretorio, quello delle scuole canobiane, una porzione del fabbricato di S. Agnese, la Maddalena, la caserma dei carabinieri reali, il fabbricato delle macellerie, il palazzo del mercato ed il casotto del dazio [ASN, Comune parte moderna, 334]. Particolarmente tormentata era stata la storia del palazzo pretorio, già nel 1515 di ragione della città, la quale in seguito addivenne a varie alienazioni di frazioni del fabbricato, come pure ad alcuni acquisti [ASN, Comune, 250-251]. La comunità possedeva inoltre caserme per l’acquartieramento dei soldati, che rimasero comunali fino alla Restaurazione, e che erano state acquistate da privati in varie tranches nel corso dell’età moderna.
Novara controllava poi alcuni dazi e diritti. Fra questi rientravano la stadera e la pesa pubblica del fieno, cedute da alcuni decurioni delle famiglie Avogadro, Tornielli, Carli e Caccia nel 1661 [ASN, Comune, 258, rogito notaio Gallarati], il dazio del vino al minuto [ASN, Comune, 296, periodo 1543-1765], il diritto di cui “la città è sempre stata in possesso, di esigere una tassa sulle diverse merci depositate nel fondaco” tenuto prima nell’osteria del pesce e in seguito nel palazzo pretorio [ASN, Comune, 317], il plateatico, cioè l’occupazione del suolo da parte dei banchi del mercato in piazza [ASN, Comune, 321, rimontante almeno al XII secolo, cfr. Rao, 66].
I diritti feudali vengono estinti il 29/7/1797, ma Novara riesce a conservare stadera, peso del fondaco e plateatico in quanto “non avocabili perché non hanno alcun estremo per essere riconosciuti dazi giacché il dazio propriamente detto è regolato da una legge, e tariffa per l’esigenza delli diritti, a cui si sottopone la cosa o la prestazione cadente nella natura del dazio”. In questo caso invece “li possono chiamare diritti dal momento che non furono giammai da alcun Governo per tali riconosciuti né venduti, ma che trattasi di semplice somministrazione alli ricorrenti della pesa, ed alla piazza di un comodo per far pesare alla prima li carichi voluminosi, ed alla seconda di avere dei banchi ed un sito particolare per esporre in vendita le derrate” [ASN, Prefettura dell’Agogna, 2128, 9/11/1806. Pretesa avocazione del demanio della stadera, plateatico, pesa del fondaco]. Pertanto, tali diritti risultano riscossi anche in seguito [ASN, Comune parte moderna, 243, Capitoli relativi al contratto d’appalto del dazio comunale della città di Novara e della stadera piccola a bilico così detta del fondaco, 1851-56]. Il regolamento del dazio prevedeva un distretto “circoscritto dalla roggia circostante alla città e denominata Cunetta” e uffizi d’esazione ai quattro ingressi principali della città, “aperti dal segno dell’ave maria della mattina a quello della sera di ciascun giorno” [ASN, Comune parte moderna, 242, Regolamento per la riscossione dei dazi comunali della città di Novara, 1850]. Novara aveva in precedenza richiesto ad altre città (Alessandria, Varallo e Vercelli) i loro regolamenti, che aveva consultato per comporre il suo.
Liti Territoriali

Liti territoriali

La maggior parte delle liti con altre comunità e corpi in genere che vede coinvolta Novara in età moderna, di cui esiste una ricca documentazione in Archivio di Stato [ASN, Comune, 1522-1579, buste che coprono la sezione di “giustizia civile” dedicata alle liti tra “pubblici”; vi è poi una lunga serie concernente il rapporto con i privati], non è di carattere territoriale ma riguarda altri aspetti. Anzitutto, molte liti riguardano la giurisdizione dei Collaterali delle vettovaglie, spettante alla città per l’intero contado, ma che specialmente i borghi maggiori usurpavano in continuazione (così fanno ad esempio Oleggio, Borgomanero, Trecate e Cerano, contro cui furono istruite molte cause).
In secondo luogo, in quanto corpo intermedio dello Stato, la città ha prodotto una vasta documentazione giudiziaria di carattere fiscale, che la vede impegnata contro altri enti intermedi (altre città, contadi). In questo filone si situa la lunga causa che Novara sostiene assieme alle altre città contro il Ducato e la città di Milano, renitenti nel pagamento degli alloggi militari [ASN, Comune, 1522]. Tali cause vedevano molto spesso agire la città assieme ad altri corpi, contro altri che ritardavano o rifiutavano i pagamenti dei tributi. Segnaliamo qui per inciso che esiste anche un vastissimo contenzioso concernente gli alloggiamenti militari ed il mercimonio, che vede coinvolti sia privati sia corpi.
Infine, una parte molto più ridotta riguarda gli atti di lite per motivi vari di turbata giurisdizione. All’interno di questa sezione possiamo far rientrare, per esempio, la causa che in età spagnola vede Novara impegnata contro il Vicario di Milano ed i dodici di provvisione, che pretendevano di esercitare la loro giurisdizione sul Novarese e le terre del Lago Maggiore per l’estrazione di legna e carbone ad uso della città di Milano [ASN, Comune, 1524]. Anche in tal caso, le cause involgono perlopiù aspetti sovralocali.
Fonti
Fonti
A.C.N. (Archivio Storico del Comune di Novara).
A.S.N. (Archivio di Stato di Novara).
     Particolarmente complesso è il discorso sulle fonti consultabili ai fini di una storia “territoriale” di Novara, poiché la documentazione è particolarmente stratificata. Prioritario è, anzitutto, il fondo Comune depositato in Archivio di Stato di Novara [A.S.N.; Silengo, L’archivio storico], che, constando di ben 1.892 buste, si pone come uno dei più ricchi a disposizione per lo studio di una città d’antico regime, in particolare per quel che riguarda il periodo spagnolo. Per la redazione della scheda, sono risultati utili soprattutto gli ordinati, le buste dedicate ai beni di proprietà della città, i catasti e sommarioni, per cui si rimanda alle singole voci. Alcune buste di questo fondo risultate di particolare utilità sono la 6 e la 7 (sulle magistrature cittadine); la 8 (ordinati del corpo decurionale, separato dal consiglio nel 1775); la 11 (dedicata al municipio di Pernate); la 25 (sulla giurisdizione); la 87 (sulle aggregazioni napoleoniche dei comuni circostanti); la 179 (minutario degli atti rogati dal notaio pubblico per la città nonché vari appalti: pulizia delle strade, privativa di spurgare le macellerie cittadine, gestione degli alloggiamenti); la 395     (sulla Congregazione di carità).
     Il fondo Comune parte antica è doppiato da un altro, gemello, relativo all’età “contemporanea” e alla Restaurazione, noto archivisticamente come Comune parte moderna, che consta di ben 1.974 buste. Vista la corposità del fondo, sono stati possibili solo dei sondaggi. Da segnalare è però, in particolare, la busta 334, contenente le statistiche comunali, come tale riassuntiva di molti aspetti relativi all’amministrazione del territorio.
     Sempre relativamente all’età contemporanea, è da segnalare il fondo della Prefettura, contenente gli “affari speciali dei comuni”, tra cui quello di Novara (in part. alla busta 664), oltre a importanti informazioni di carattere religioso (ad esempio, la busta 677 contiene resoconti sui benefici parrocchiali delle frazioni aggregate) e il fondo della Provincia, di ben 2.054 buste, che (caso abbastanza raro) è stato versato in archivio di Stato, e che risulta importante per conoscere la vita di alcune istituzioni sovra-locali come la camera di commercio cittadina piuttosto che le scuole di agricoltura, nonché importanti affari come le strade e in generale il controllo del territorio.
      Per quanto riguarda l’età napoleonica, risulta di grande interesse il fondo del Dipartimento dell’Agogna, sempre in A.S.N., suddiviso per materie, molto utile in particolare per conoscere la politica cittadina e napoleonica verso i beni comunali (buste 393, 2.128, 2.191) e le aggregazioni di comuni dipendenti (buste 550-553).
Per il periodo della Restaurazione, sempre in A.S.N., risulta poi utile il fondo dell’Intendenza sabauda, che assommava compiti di controllo molto vario sull’attività dei comuni (cfr. per esempio le buste 441-444, sui beni di proprietà della città, comprensiva di molte liti con il demanio), mentre il fondo dell’Intendenza di fine Settecento è ormai ridotto a ben poca cosa, essendo stata la gran parte del materiale trasferita in un archivio privato, appartenente alla famiglia Gibellini di Prato Sesia (il Gibellini era stato uno degli ultimi intendenti prima dell’avvento di Napoleone).   
A.S.M. (Archivio di Stato di Miano).
     Si sono consultati poi fondi in Archivio di Stato di Milano [A.S.M.] e in Archivio di Stato di Torino [A.S.T.]. In ASM sono risultate particolarmente utili la cartella contenente i processetti preparatori per il catasto di Carlo VI della città di Novara [Confini parti cedute, 15 e 19, fasc. 6]; quella di Censo p.a., 1.638 (con i Privilegia Novariae e la Descrizione universale del Contado di Novara di Nicola Sacco del 1696); di Senato, Deroghe giudiziarie per corpi e comunità, 63.
A.S.T. (Archivio di Stato di Torino).
     In A.S.T. si sono consultati alcuni fondi relativi alle province di nuovo acquisto e cioè Paesi di Nuovo Acquisto, Novarese, mazzo 1 (comprendente documenti perlopiù di periodo spagnolo o di poco successivi, quali il Diploma dell'Imperatore Ferdinando III di concessione a favore del Collegio de’ Dottori della Città di Novara di diversi Privilegj ivi specificati del 23/12/1651 e le Rappresentanze, Scritture, e Pareri sulle differenze insorte trà la Città di Novara, e l'Università del Mercimonio circa i regolamenti di questa del 1741); il Capo 13 della Seconda archiviazione, comprensivo della documentazione sulla perequazione; il carteggio tra gli intendenti e il Generale delle finanze sabaudo, sempre compreso nella Seconda archiviazione, Capo 57, buste 431-450, anch’esso in buona parte riguardante la perequazione e dunque il secondo Settecento; il fondo Luoghi Pii di qua e al di là da monti, Addizione, mazzo 12. Sul tema delle riforme catastali si è poi preso in considerazione anche il fondo del Censimento Paesi Nuovo Acquisto, comprendente la documentazione della giunta appositamente costituita allo scopo [su cui si veda Alimento, 2008].
A.V.A. (Archivio Storico Diocesano di Novara).
    Per quanto riguarda le istituzioni ecclesiastiche, ricopre un ruolo fondamentale l’Archivio storico-diocesano [A.V.A.], e in particolare le visite pastorali [Vp]. Archivisticamente, le visite sono state suddivise per enti: Cattedrale [Vp, 27 e 263, 1594, Bascapè; 99, 1623, Volpi; 286, 1650, Odescalchi; 350, 1764, Balbis Bertone; 363, 1819, Morozzo]; San Gaudenzio [28, 1594, Bascapè; 264, 1618, Taverna; 265, 1657, Odescalchi; 287, 1690, Visconti; 351, 1764, Balbis Bertone; 364, 1819, Morozzo]; monasteri [9, 1590, Speciano; 29, 1595, Bascapè; 99, 1623, Volpi; 266, 1658, Odescalchi; 289, 1691 e 1709, Visconti; 353, 1765, Balbis Bertone]; parrocchie cittadine [4, 1576, Archinto; 5, 1580-81, Bossi; 16 e 284, 1590, Speciano; 30 e 31, 1595, Bascapè; 76, 1617, Taverna; 286, 1623, Volpi; 157, 1657, Odescalchi; 288, 1690, Visconti; 268, 1749, Rovero Sanseverino; 352, 1764, Balbis Bertone; 446, 1845, Gentile; 457, 1879-85, Eula]. Bisogna inoltre considerare che le visite pastorali dei comuni aggregati in età napoleonica a Novara non si trovano all’interno della documentazione riguardante la città ma sparse in quella dei vicariati di appartenenza. Presso l’ASDN è poi molto utile l’Archivio capitolare di S. Maria, e in particolare la sezione XI, Controversie e sentenze contro la Collegiata e Capitolo di S. Gaudenzio di Novara, composta da 11 buste.
Bibliografia
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Descrizione Comune

Novara

      La caratteristica forse più peculiare della città di Novara, dal punto di vista storico, è di non essere alla fine né piemontese né lombarda ma, come è stato ribadito anche in recenti pubblicazioni di carattere economico, una cerniera tra le due regioni [Novara cerniera tra Piemonte e Lombardia; cfr. anche Peretti; ed Emanuel, che ipotizza una zona di passaggio “mista” tra un territorio-conurbazione quale quello milanese e un’area disseminata di comuni piccoli e medi quale il Piemonte].
Per tutta l’età basso-medioevale e moderna legata a Milano anche politicamente, passò ai Savoia solo nel 1738, e apparve subito ai funzionari sabaudi di non semplice integrazione, in particolare per quanto riguarda il fisco, tanto che l’intendente Capris doveva parlare di “molte […] difficoltà eccitate dalla Città” in proposito [Capris, p. 167; cfr. anche Pene Vidari, p. 49, che nota come Novara sia rimasta realmente staccata da Milano per poco più di cent’anni, tra 1738 e 1859].
In effetti, la città era frazionata al suo interno in un gran numero di corpi contribuenti, a ciascuno dei quali toccava una percentuale d’estimo: si andava dai cives di Novara, alla Congregazione degli interessati milanesi (i proprietari cittadini di Milano, che pagavano per un settimo della quota generale), all’Università dei mercanti, che pagava per il mercimonio una quota fissa pari a un tredicesimo, poi rettificata in un trentesimo. All’interno del territorio l’estimo era poi ulteriormente suddiviso fra città (cui spettava l’amministrazione fiscale intra muros e nei sobborghi) e contado, che ubbidivano a due istituzioni diverse. I funzionari sabaudi giudicavano a dir poco pletorica questa organizzazione, “essendo cosa amirabile, che così poco numero di gente plebea, e volgare aministri una azienda quasi duplicata di quella della Città senza rendere conto a chi si sia de suoi più segreti maneggi, potendo così donare e rubbare a man salda con tanto pregiuditio del publico, e reale servitio, e si addimanda la congregatione de Sindici del Contado, eletti per la forza de contanti con quali si comprano i voti, e degl’impegni pericolosi de prepotenti, da deputati delle terre vocali, che essendo gente d'infima sfera sanno difficilmente resistere a colpi dell'oro e dell'autorità [...] è concepito da un Governatore di Milano, con massima da Tiranno, fabricando su la discordia delle parti componenti il publico lo stabilimento del suo sovrano” [ASM, Censo p.a., 1.638, 6/12/1723].
L’importanza dell’elemento fiscale è ribadita dalla presenza di un’Università dei mercanti che, caso unico nelle città di antico regime, non designa un tribunale mercantile o un’istituzione di rappresentanza delle corporazioni (scomparse già nel Basso Medioevo), ma un’organizzazione per la riscossione dei tributi, dato che ai mercanti era stato attribuito in solidum una quota dell’estimo. A questa situazione cercavano di porre rimedio i sabaudi nel 1748, “per cui, mediante la Regia approvazione l’estimo mercimoniale è stato aggregato all’estimo civile sotto la solidaria amministrazione della Città suddetta; poiché prima dell’antidetta incorporazione l’Università de’ Mercanti, o sia Corpo mercimoniale della Città e Corpi Santi, correva per l’intera suo quota di scuti 587 soldi 45 che le fu assegnata nel riparto delli scuti 300 mila e corrispondente poco meno che alla decima terza parte della quota totale stata assegnata ala città per li stabili. Una tale incorporazione è stata molto vantaggiosa al Corpo mercimoniale” [Capris, p. 166].
Solo nel 1777, però, il paragrafo 23 del Regio editto del nuovo censimento sopprimeva città e contadi, costituendo un unico corpo provinciale per il pagamento dei tributi, come già era nel Regno di Sardegna.
Spina dorsale del consiglio cittadino novarese era il corpo decurionale, che dimostrò nel corso del tempo una resistenza considerevole, tanto da sopravvivere non solo al Regolamento dei pubblici del 1775 che riformava l’amministrazione degli enti locali sabaudi, ma anche alla Restaurazione: le regie patenti del 1834 e il regio biglietto del 1837 ne sanciscono e riconoscono ancora l’esistenza, pur ridotta ad un un consiglio a sé stante. La chiusura oligarchica, originatasi a metà Cinquecento (ma già visibile negli statuti sforzeschi del 1460) termina dunque solo nel 1848, con l’emanazione della nuova legge elettorale albertina.
In epoca spagnola, Novara venne considerata da Madrid come una delle principali piazzaforti difensive dello Stato di Milano. “Novara è l’antemurale del Ticino, fiume dal quale Milano ne riceve tanti commodi, che bisogna custodirlo come cosa molto importante. Fa Novara principalmente fronte à Svizzeri i quali per la Val Dossula possono calare à quella volta senza alcun intoppo. La confina con il Vercellese, et con Casale Monferrato dove ultimamente si fabricò una Cittadella molto grande. Ha un castello d’assai buone muraglie, ma molto piccolo, et con quatro più toste torri che baluardi […] È luogo di molta consideratione et importanza, rispondendo a Mortara […] Et però necessaria si stima la fortificatione et la guardia di questi luoghi alla conservatione di Milano, quanto di nessun altro” [Pruno, Piccoli, p. 140]. Così una relazione sulle fortificazioni di inizio Seicento presentava la situazione della città all’interno dello scacchiere lombardo, che per la monarchia spagnola rivestiva una importanza strategica decisiva. La relazione seguiva al grande rifacimento cittadino cinquecentesco, e preludeva a ulteriori lavori che di lì a poco avrebbero trasformato nuovamente l’arredo urbano, costruendo quella che nelle intenzioni del governo spagnolo doveva essere una città-baluardo.
La filosofia del cambiamento è ben sintetizzata nell’allegazione del 10/5/1636 dell’oratore cittadino Andrea Carli, stilata subito dopo la distruzione della chiesa di S. Stefano: “la città di Novara fu sempre anticamente cinta e ben difesa da grosse muraglie, circondata da terrapieni, fortificata di trinciere et fosse di dentro et di fuori, guardata da baluardi et dal castello in modo che la rendevano inespugnabile etiandio dalle batterie, non che sicura dalle incursioni et scorrerie […] Sendo poi venuto al governo di questo Stato, il signor conte di Fuentes determinò di desolare gran parte di quelle antiche muraglie, spianare terrapieni e baluardi, sotto pretesto di allargare detta città et di far novi baluardi et nove cortine, acciò fosse una fortezza reale et una piazza d’armi a difesa delli confini per servitio di tutto lo Stato” [Frasconi, Topografia antica, p. 84]. Novara era insomma sempre stata una città ben difesa, ma sotto il governo del Fuentes era radicalmente cambiata la sua funzione strategica nello scacchiere militare spagnolo, diventando la principale piazzaforte sul lato ovest dello Stato di Milano. A influire profondamente sull’assetto insediativo (e, dunque, in ultima analisi, sulla stessa realtà sociale) di un’intera città di antico regime era stata dunque una decisione strategica del potere centrale spagnolo.
Con ciò, Novara si presenta in modo piuttosto peculiare come un caso di intervento massiccio, in antico regime, da parte del centro statale su di un territorio cittadino: nonostante le fortissime opposizioni a livello locale, il governo riuscì a compiere integralmente il suo programma di distruzione e ricostruzione dell’urbs. Il discrimine è importante, poiché mostra due Novara: quella precedente, con un determinato assetto insediativo, ed una successiva, che presenta un territorio mutato in profondità, sia all’esterno delle mura che all’interno, dove vennero trasferiti gli enti ecclesiastici prima residenti nei sobborghi. A inizio Seicento, il sovraffollamento di istituzioni ecclesiastiche e di soldati entro le mura era del tutto evidente a un osservatore come il vescovo Bascapè, il quale nel 1612 scriveva che “la città, sebbene piccola, contiene molte chiese e monasteri, i quali restringono d’assai le abitazioni dei cittadini, massime anche coi quartieri delle milizie spagnole in essa allogate”. Questo perché “volendo togliere edifizi che potevano servire di base alle operazioni d’assedio, ed insieme avere in pronto il materiale de’ sacri edifizi per le profane fortificazioni, spianarono le chiese ed i conventi, non senza grave dolore di tutti i buoni che ancora se ne affliggono. Così gli Ordini religiosi restringendosi nella città ne occuparono buona parte” [Bascapè, p. 41].
È solo in apparenza paradossale il fatto che Novara e marchesato fossero stati infeudati ai Farnese nel 1538, per garantire una rendita alla casa regnante parmense che aveva appena sovvenzionato Carlo V nella sua elezione imperiale. Infatti, l’infeudazione non interveniva in maniera significativa sul governo cittadino, anche se causò comunque diversi conflitti nella gestione della giurisdizione. Proprio il Fuentes, comunque, decideva di riscattare il marchesato nel 1602, in vista della formazione di una città-baluardo. Il mantenimento in città di un nutrito presidio spagnolo era funzionale a questo progetto. Novara rimase un crocevia di truppe anche in seguito, come dimostra l’ampio uso che la città fece di caserme. Nel Settecento, al momento del catasto teresiano, la proprietà degli stabili intra muros vedeva importanti spazi in mano agli enti ecclesiastici (che già a fine Seicento ne possedevano circa il 40%) [Guaita] ed altri altrettanto importanti destinati all’alloggiamento dei militari e gestiti direttamente dalla città.
Un significativo allargamento della città amministrativa avviene in periodo napoleonico, quando Novara fagocita ben otto comunità. Il motivo delle annessioni non risiede, tanto, nell’impossibilità da parte delle comunità incorporate di formare un proprio consiglio comunale o in intenti di razionalità amministrativa, ma nell’insistenza di Novara presso il centro perché le fosse assegnato un territorio più ampio da amministrare, in conseguenza delle forti spese cui non riusciva a far fronte. Anche in seguito, tuttavia, il problema pare non fosse stato risolto, tanto che di alcune comunità annesse (Pernate) ci si lamenta che l’amministrazione causa un deficit economico piuttosto che un guadagno.
Dal punto di vista religioso, la città vede dunque nel corso dell’età moderna una presenza sempre maggiore di enti intra muros, ma annovera in generale importanti istituzioni assai risalenti. In particolare, è sede diocesana dal V secolo e il suo episcopo vanta nell’Alto Medioevo un dominio territoriale su larga parte del contado. Il vescovo rimarrà principe per tutta l’età moderna sulla Riviera d’Orta, che rimarrà a lungo e ancora nel Settecento feudo imperiale.
Altrettanto o forse ancora più antica rispetto alla cattedrale era la fondazione di S. Gaudenzio, il cui capitolo era espressione della società cittadina mentre quello di S. Maria pareva più legato a poteri sovra-locali e meno alle élites urbane.
Il conflitto tra i due capitoli rimonta almeno all’840. Le donazioni fatte in quell’anno a S. Maria avevano provocato più di uno scontento tra i canonici di S. Gaudenzio, come dimostra la concessione fatta a questi ultimi dallo stesso vescovo Adalgiso, il 30/1/848, di beni di suoi proprietà a Cesto. I canonici di S. Maria da poco trasferiti a San Gaudenzio pretendevano infatti di essere “pari e distinti” con quelli del capitolo della cattedrale. Nel 1118 S. Maria protestava in quanto i chierici di S. Gaudenzio non partecipavano alle cerimonie liturgiche che si tenevano in cattedrale nella quattro maggiori festività [Andenna, Diocesi di Novara 2007, p. 111; Ghezzi]. Nel 1141 e nel 1147 sorsero poi accese controversie riguardanti la spartizione di alcune decime, che diventa il pretesto per discutere i diritti dei due capitoli sul territorio. Nel complesso, S. Maria seppe però resistere alle pretese dell’altro capitolo, contrariamente a quanto era accaduto a Vercelli, dove i rapporti di forza furono rovesciati [Andenna, Dal regime curtense].
La lotta fra i due capitoli continuò sotto varia forma anche in seguito. Nel 1575 i gaudenziani decisero di presenziare al sinodo in piviale, e rischiarono perciò la scomunica; nel 1607 intervenirono a spada sguainata contro i canonici di S. Maria; nel 1630 rifiutarono di partecipare ad una processione, nel 1632 chiusero la chiesa agli altri canonici, nel 1633 sporcarono gli stalli del coro per impedire a quelli di S. Maria di sedersi. Nel 1659 il Consiglio obbligò i due capitoli a firmare un atto di concordia ratificato poi dal papa Alessandro VII nel 1665, con cui si cercava di regolamentare i diritti di precedenza che tanto erano stati discussi [Cognasso, pp. 442-5]. Il Consiglio cittadino dovette intervenire ancora a fine secolo per regolare il cerimoniale dell’entrata.
La recrudescenza più forte dello scontro si ebbe però a metà Settecento, quando nel corso della celebrazione di S. Gaudenzio del 1749, i canonici di S. Maria “offesero” i gaudenziani impedendo loro di vedere il vescovo. Si riproponeva così l’annosa questione delle precedenze; dopo un esposto alla Sacra Congregazione dei riti e alla Corte di Savoia si arrivò ad un nuovo accordo nel 1753, che non ebbe però l’effetto di risolvere la vertenza. A livello dottrinale, lo scontro diede vita a fine Settecento alla scrittura di due opere che ricostruivano in maniera densa i diritti dei due capitoli, quella di G.M. Francia De novariensi sancti Gaudentij ecclesia quae optimo jure insignis esse demonstratur dissertatio, del 1793, e la risposta di F. Gemelli, Dell’unica e costantemente unica chiesa cattedrale di Novara riconosciuta nel suo Duomo. Dissertazione apologetico-storico-critica, del 1798. Il Francia, discutendo la normativa tridentina, argomentava in particolare che una situazione di “con-cattedralità” era tutt’altro che peregrina e che, nello specifico, S. Gaudenzio era stato chiesa cattedrale di Novara prima di S. Maria, fino al termine del VII secolo. Gemelli e Carlo Francesco Frasconi confutavano quest’ultima affermazione. Anche in seguito, la disputa non mancò di interessare sia la municipalità (che nel 1803 ordinò di compilare un rapporto sulla fabbriceria gaudenziana) sia la chiesa stessa, pur essendosi spostata ormai in un ambito più squisitamente dottrinale [Temperelli; Archivio capitolare di S. Maria presso ASDN, XI, Controversie e sentenze contro la Collegiata e Capitolo di S. Gaudenzio di Novara, 11 buste, anni 1118-1812].
Anche il mondo della carità cittadino, significativamente, era fratturato in due. Il 12/11/1482 le lettere apostoliche di Sisto IV sancivano l’aggregazione (concessa da Bona di Savoia, signora della città, nel 1479) di sette ospedali minori entro il più grande ospedale di S. Michele. Si trattava degli ospedali di S. Dionigi, S. Maria Nuova (retto da francescani penitenti del Terzo ordine), S. Gottardo (che accoglieva i lebbrosi), S. Colombano, S. Bartolomeo, S. Antonio abate e S. Giuliano [Airoldi Tuniz, Diocesi di Novara]. Il governo del nuovo complesso era affidato al rettore di S. Michele “congiuntamente a quattro cittadini nobili di Novara che, eletti, dovranno essere confermati dal vescovo di Novara o dal suo vicario” [Frasconi, Documenti, p. 227], che dovevano vivere nell’ospedale o nelle case attigue. L’ospedale di S. Giuliano rifiutò però di aggregarsi a S. Michele, continuando a condurre vita autonoma fino a Novecento inoltrato, nonostante tentativi di fusione fatti in più riprese, e segnatamente nel 1562, con una lite mossagli da S. Michele, e poi in epoca sabauda e napoleonica.
S. Giuliano rappresentava l’ultima corporazione rimasta in ambito cittadino, quella dei calzolai, dopo l’abolizione sforzesca dei paratici, e poté continuare la sua esistenza proprio grazie al legame con la carità. Al contrario, S. Michele era invece espressione di un mondo assai diverso, sostanzialmente del corpo dei decurioni.
Un grande cambiamento nell’amministrazione dei “luoghi pii” (denominazione sotto cui rientravano gli ospedali, il monte di pietà e le varie opere) si produce nel 1769, quando con le regie patenti del 6 giugno viene istituita la Congregazione della carità di Novara, “qual Congregazione debba avere l’incombenza di procurare il retto maneggio dei luoghi ed opere pie di carità erette o da erigersi in città e nella provincia tanto dell’alto, che del basso Novarese” [ASTO, Luoghi Pii di qua e al di là da monti, addizione, mazzo 12 fasc. 1]. A questo evidente tentativo di centralizzazione della carità non mancarono opposizioni, “che si fecero da alcune Opere pie della medesima città, e principalmente dallo Spedale maggiore degli infermi, i di cui amministratori dipendono dal corpo nobile decurionale, relativamente alla dipendenza che avrebbero dovuto avere le sudette opere pie dalla predetta Congregazione a norma dei sudetti regolamenti 1778 e 1779” [ASTO, Luoghi Pii di qua e al di là da monti, addizione, mazzo 12 fasc. 5]. La composizione della congregazione è significativa, poiché mostra i vari soggetti impegnati nella società cittadina e il loro peso. Essa era formata da venti deputati, ovvero il vescovo, il governatore, l’intendente generale, il podestà, quattro canonici (due della cattedrale e due di S. Gaudenzio), due sindaci, due decurioni, e altri otto soggetti di origine cetuale, tra cui quattro cavalieri scelti dai decurioni, due provenienti dalla classe dei dottori e due da quella dei negozianti.
Un’altra importante istituzione cittadina di carattere religioso era il Sacro Monte di Pietà, fondato da Amico Canobio nel 1566 (il breve di Pio V che lo autorizza è del 15 agosto), e gestito da una confraternita della SS. Pietà nata contestualmente al monte che aveva anche altre funzioni, come l’assistenza ai poveri, ai carcerati e ai condannati a morte [De Paoli]. Nel 1606, alla morte del figlio del Canobio, la confraternita ereditò le sue sostanze, con cui istituì le scuole canobiane, dal 1624 affidate ai Gesuiti nella sede di Palazzo Canobio in piazza delle Erbe, e che ebbero vita autonoma fino alla riforma scolastica sabauda del 1772 [Lizier, Le scuole di Novara]. Dopo essere stata momentaneamente sciolta in periodo napoleonico, nel 1866 la confraternita diventa “pia società” e assume carattere laico; viene trasformata nel 1875 in Società e nel 1938 in Monte di credito su pegno [Scolari]. Anche il monte può vantare un’esistenza lunghissima, tanto da essere soppresso solo in epoca molto tarda, nel 1992, ma continuando in realtà la sua attività fino al 1996 quando è definitivamente assorbito dalla banca Sella.
Economicamente, Novara si trova a capo di un territorio che in età moderna si orienta sempre più verso la produzione risicola, con un grande e parallelo sviluppo anche del mais a fini di autoconsumo [Morreale, Economia e società; Colombo; Prato]. Il riso portava con sé un modello economico ma anche sociale e istituzionale di crescita peculiare. Nel corso dell’età moderna, si era assistito ad una vittoria della grande proprietà. Si pensi, a titolo di esempio, che una delle comunità poi aggregate da Novara in periodo napoleonico, Agognate, nel 1723 era interamente affittata a un grande fittabile, Francesco Sacchi di Oleggio, per 11.000 lire con un contratto novennale [ASM, Confini parti cedute, 37, fasc. 1]. Il Cuoco osservava nel 1802 che “apparisce che la smodata coltivazione di questa pianta non si è estesa in questo dipartimento, se non da circa quarant’anni in qua, ed è cresciuta a dismisura in questi ultimi anni, ne’ quali una lunga guerra ha impedito l’arrivo del riso di Levante e di Egitto, che ora sono riaperti di nuovo” [Gioia, Cuoco, p. 159].
A livello giurisdizionale, la coltivazione del riso aveva provocato un enorme ricorso ai tribunali per i diritti sulle acque: “Il territorio novarese è ad ogni tratto intersecato da roggie, fossi e canali d’acqua, che si conducono qua e là, per fecondare i terreni, che tengonsi a prato, e si coltivano a riso, e da questa moltiplicata condotta d’acque ne deriva una quantità di liti, che nel presentaneo sistema o devono introdursi avanti il giudice locale di prima istanza, o portansi addirittura avanti il Senato sedente in questa città” [ASN, Comune, 25, Supplica del 1774 della città a Vittorio Amedeo].
Con l’emanazione delle Regie costituzioni nel 1770, il Maggior magistrato veniva tolto alla città, causando di conseguenza problemi a livello di gestione della giustizia “economica”: “Tutti gli esposti inconvenienti non incontravansi prima dell’osservanza delle Regie Leggi, poiché il prefetto della provincia nella qualità di Maggior Magistrato eserciva in ogni luogo la sua giurisdizione in prima istanza”. Invece, “lo stabilimento di un giudice in ogni terra, e la conseguente divisione delle giurisdizioni ne meno è adattata a quella provincia, avuto riguardo della qualità delle terre medesime e dei loro abitanti. Difatti molte sono, e frequentissime le terre nel distretto novarese, ed a riserva di dieci o dodici al più, sono sì piccole e composte di un così tenue numero di abitanti che trovansi a grande stento i semplici notai, che ne vogliono assumere la giudicatura; gli abitanti poco o nulla possiedono e sono per lo più poverissimi, ne vi è in tutta la risara un terriere che possegga un palmo di terreno, appartenendo tutti i beni de rispettivi territori a cittadini o di Novara o di altre città, che fanno in esse continua loro residenza”. Essendo le terre perlopiù di piccole dimensioni, se ne erano riunite diverse sotto la medesima giudicatura ma nessuno voleva incaricarsi dell’amministrazione della giustizia, “e trovansi i feudatari in obbligo di darli a giovani di poca esperienza, che essendo obbligati di portarsi in ogni settimana a tener banca ora in una, ed ora in altra terra, soventi è accaduto che cadendo in una di esse qualche citazione, si sono le parti della città recate nel luogo del tribunale, senza però che sia comparso il giudice in tutta la giornata trattenuto in altro luogo o per intemperie del tempo che rende impraticabili le strade di traverso, o per l’escrescenza delle acque, o per malattia” [ASN, Comune, 25, Supplica del 1774 della città a Vittorio Amedeo].
Il grande successo del riso aveva portato a una crescita sempre maggiore della proprietà cittadina nel contado. Già nel Cinquecento, come si può verificare attraverso i dati dell’estimo di Carlo V, circa metà della terra sita al di fuori della città era di proprietà dei cittadini novaresi, della chiesa o degli interessati milanesi. Agli inizi del Settecento, il catasto di Carlo VI certificava che su 66 comunità soltanto in una dozzina più del 25% della terra era di proprietà di rurali residenti in loco [Capra, p. 18]. Si trattava dei borghi più rilevanti, che erano riusciti a mantenere una propria indipendenza sociale ed economica e spesso anche giurisdizionale da Novara e Milano: comunità come Borgomanero, Romagnano, Oleggio, Trecate. A sua volta, il largo dominio vantato nella proprietà della terra costituiva presumibilmente la ragione che permise ai decurioni novaresi di mantenere un potere politico tanto resistente nel tempo. A livello statale, l’influenza politica del decurionato novarese era al contrario quasi nulla [Ricuperati, Lo Stato e una provincia; cfr. anche la supplica della città al Governatore dello Stato del 16/4/1661, in cui si lamenta che Novara non ha alcun posto nei tribunali di Stato, contrariamente alle altre città lombarde, ASM, Censo p.a., 1.638]. Per molti versi, la città rimase il centro direttivo della risicoltura anche in seguito, anzitutto attraverso la funzione commerciale. Nel corso della restaurazione erano attivi in città tre mercati settimanali e tre fiere annuali, “ed è perciò che Novara vien riputata la prima tra le piazze del Piemonte per riguardo al commercio di granaglie”, e in particolare per il riso, quasi interamente destinato all’esportazione all’estero “per le vie di Genova, del Sempione e del Po sino […] a lontane regioni, giacché il riso novarese resiste possentemente alla navigazione […] La coltivazione del riso forma davvero la ricchezza della città, e spande l’agiatezza per tutto il Novarese” [Casalis, p. 150]. Un altro strumento di controllo cittadino era il credito. In epoca fascista, ad esempio, l’Ente nazionale risi, costituito nel 1931 a Vercelli per il controllo sui prezzi, era di fatto governato da esponenti della Banca popolare di Novara [Castronovo, p. 495].
A partire dal basso Medioevo e poi per tutta l’età moderna si ha invece uno scemare d’interesse per le manifatture, come testimoniano la chiusura sforzesca delle corporazioni e la serrata oligarchica imposta dai decurioni, dietro cui si può leggere l’importanza economica e sociale sempre maggiore assunta dalla proprietà terriera. Nel 1877, la situazione era di gran lunga migliore e Novara sembrava essere all’inizio di uno sviluppo industriale, anche se la “occupazione prevalente è l’agricoltura; non vi sono miniere. Fra gli stabilimenti industriali si citano un filatoio di cascami di seta, un incannatoio di seta, un cotonificio, una tintoria dei filati in rosso, una fabbrica di utensili di stagno, di piombo e di ottone, sette tipografie, due concerie, tre fonderie di ghisa e quattro brillatoi di riso. Gli operai addetti a questi stabilimenti sono maschi 340, femmine 990 […] Pochissimi sono i telai a domicilio” [Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche, II, p. 6]. Importante era lo sviluppo dell’industria connessa all’agricoltura, in particolare per quanto riguarda il riso. La “Pastorino e C.” nel 1877 possedeva in Novara due brillatoi che davano lavoro a circa trenta operai. Nel 1911 il censimento rileva quattro industrie attive in città nella brillatura e successiva esportazione del riso: la “Raffineria risi M. Bordiga e c.”, la Lovati A”, la “Baselli” e la “Podestà N.”.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’industria tessile pare essere diffusa ma più che altro in campagna, dove l’organizzazione del lavoro era ancora di tipo decentrato [De Maddalena-Lenti]. Novara era tuttavia un centro già importante per la lavorazione del cotone, potendo contare sulla presenza ditta “Giovanni Bollati e C.”, che possedeva una grande manifattura nel sobborgo di S. Andrea in cui erano impiegate circa 500 persone. A inizio Novecento, la città mantenne la sua vocazione cotoniera, tanto che la “Manifattura Rotondi” (una della principali industrie italiane del settore) vi aprì una fabbrica per la tintura, il candeggio e la filatura. Complessivamente, nel 1911 Novara ospitava 482 imprese con 7.650 addetti [Castronovo, p. 243]. Nel corso del secolo Novara ricoprirà un ruolo di primo piano all’interno del “triangolo industriale”, specialmente nei settori dell’alimentare, della chimica (la Montecatini aprì in città un grosso stabilimento per la produzione dell’ammoniaca) e dell’editoria, con l’importante presenza della De Agostini che si trasferì in città da Roma nel 1909.
A fine Ottocento nasceva anche una dura contrapposizione con Torino per l’istituzione di una camera di commercio autonoma a Novara, che Torino intendeva rifiutare nonostante l’istituzione per legge di una camera di commercio per ciascun capoluogo di provincia. Nel 1884, il consiglio comunale chiedeva l’appoggio della provincia per presentare la richiesta, dopo che già il senatore Giovanola aveva fatto notare in consiglio provinciale che “è umiliante per noi che i reclami dei nostri contribuenti abbiano ad essere giudicati da giudici eletti da pochi negozianti di Torino” [ASN, Provincia di Novara, 883]. La camera di commercio torinese si opponeva però nel 1887 alla richiesta sostenendo che esistevano “omogeneità di interessi commerciali e industriali fra le due Provincie di Torino e di Novara” [Sulla conservazione dell’attuale camera di commercio ed arti comune fra le provincie di Torino e di Novara]. La motivazione principale addotta da Novara per separarsi erano invece le enormi spese affrontate dalla camera torinese e propinate alla provincia senza che ci fosse una reale proporzione con gli affari effettivamente sbrigati per suo conto. Alla fine, Novara riusciva ad ottenere una sua camera autonoma.
Di grande importanza per la città fu la sua banca popolare, fondata nel 1871, che ebbe un’enorme espansione tra Otto e Novecento (grazie in particolare ad una politica molto aggressiva di acquisizioni di altri istituti di credito ubicati anche fuori provincia), tale da portarla a essere la prima banca popolare italiana per dimensioni superando quella di Milano nel secondo ventennio del Novecento [Cafaro]. Alla radice della sua fortuna vi era lo stretto legame con l’agricoltura e in particolare con la risicoltura, ma anche il finanziamento industriale a medio termine. Con ciò, la Popolare si comportò nella prima parte del Novecento sempre più come banca di interesse nazionale, partecipando ad esempio in maniera massiccia al finanziamento del riarmo nazionale all’inizio del secondo conflitto mondiale [Chiaromonte, pp. 235-268].